Dal rapporto Ocse diffuso nei giorni scorsi alla Settimana sociale dei cattolici del 26-29 ottobre, interviene Ernesto Diaco, direttore dell’ufficio competente della Conferenza episcopale italiana

di Giovanna PASQUALIN TRAVERSA

scuola

Un Paese “a bassa competenza”, intrappolato in un low-skillequilibrium: è il nostro, secondo il rapporto dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – in inglese Oecd) Skills strategy diagnostic report: Italy 2017 (“Strategia per le competenze per l’Italia”). Secondo l’indagine, diffusa il 5 ottobre scorso, 13 milioni di italiani adulti (il 40% della popolazione) possiedono basse competenze. Solo il 20% dei giovani tra i 25 e i 34 anni è laureato (contro la media Ocse del 30%), e anche chi è in possesso di un titolo universitario ha, in media, “un più basso tasso di competenze” in lettura e matematica (26° posto su 29 Paesi Ocse). Il rapporto tuttavia riconosce che l’Italia si sta impegnando ad attuare riforme che invertano la tendenza. Il Jobs Act viene definito “una pietra miliare del processo di riforma”, e vengono inoltre citate la Buona scuola, Industria 4.0, Garanzia giovani e la legge sulla Pubblica amministrazione. Della riforma dell’istruzione si evidenzia in particolare il piano per il digitale e l’alternanza scuola lavoro.

Ernesto Diaco è il direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università (Unesu) della Cei (Conferenza episcopale italiana) che il 13 ottobre scorso ha promosso a Roma un momento di riflessione e dialogo su scuola, formazione e lavoro in vista della 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani (Cagliari, 26-29 ottobre).

Professore, come si sente interpellato da questi dati?

«Il mondo della scuola si sente fortemente interpellato: per questo abbiamo deciso di dedicare una giornata di confronto in vista della Settimana sociale per far arrivare a Cagliari la voce della scuola e della formazione professionale. Pur avendo fatto diversi passi in avanti, in Italia c’è ancora difficoltà di dialogo tra scuola e professioni. Va superata da un lato un’istruzione chiusa in se stessa, incapace di aprirsi al territorio; d’altro canto, sarebbe sbagliato anche finalizzare l’esperienza formativa alle sole esigenze del mercato del lavoro, per quanto importanti».

Quali strumenti mettere in campo?

«Tra le molte direzioni da seguire ne indico tre: qualificare maggiormente le iniziative di orientamento nelle scuole, mettere in campo efficaci strategie di formazione permanente degli adulti, e diffondere e consolidare in tutto il Paese i percorsi della Istruzione e formazione professionale (Iefp), che stanno dando prova di grande successo formativo e occupabilità degli allievi che ne usufruiscono. Purtroppo però sono attivati solo in alcune regioni, ci sono procedure troppo complesse e manca la garanzia delle risorse».

Il rapporto Ocse sottolinea con forza l’importanza di un alto livello di competenze. Come tenere insieme questo aspetto con quello di una formazione integrale della persona?

«La finalità della scuola è la formazione integrale della persona e ciò comprende anche la scoperta e l’affinamento delle sue inclinazioni e capacità. Per usare un’immagine cara a papa Francesco, la scuola deve parlare il linguaggio della testa, del cuore e delle mani, ossia della creatività e dell’espressione di sé nei diversi campi dell’attività umana. Non dimentichiamo però che la cosiddetta “società della conoscenza” in cui viviamo chiede ai ragazzi competenze ben più vaste degli aspetti tecnici o strettamente cognitivi. Le competenze che più aiutano a inserirsi positivamente nel contesto sociale sono spesso di tipo relazionale, cooperativo, creativo e anche etico».

Qual è il suo parere, dopo due anni, di alternanza scuola-lavoro?

«Mi sembra di vedere che l’alternanza scuola-lavoro funziona solo se c’è un reale dialogo tra scuola e territorio e non viene subita dagli insegnanti come un carico in più, che fa perdere tempo allo svolgimento del programma. Si tratta di un’esperienza formativa, con “insegnanti” diversi e compiti nuovi per l’alunno, non di un apprendistato, che è un’altra sfida su cui puntare».

Il Papa invita i docenti a costruire una relazione educativa con ogni allievo. Che valore dovrebbe avere questa affermazione nel quadro dell’azione pastorale della Chiesa universale e nel contesto della riflessione pedagogica contemporanea?

«Papa Francesco conosce molto bene la realtà dell’educazione e mostra una grande attenzione alla scuola. Il suo magistero su questi temi è particolarmente vasto. Incontrando la scuola italiana, il 10 maggio 2014, sottolineò che l’educazione non è mai neutra: o fa crescere la persona o la impoverisce. Mi piace leggere nelle sue parole anche l’idea che si impara solo ciò che è bello e degno d’amore. Il resto lo si ricorda o lo si apprende, ma non entra in profondità a costruire la persona. Diceva Simone Weil che l’intelligenza cresce e porta frutto solo nella gioia».

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