Ministri di culto e fedeli delle varie confessioni aderenti al Consiglio cittadino delle Chiese hanno partecipato alla Veglia ecumenica di preghiera per invocare la fine dei conflitti in corso nel mondo
di Annamaria
BRACCINI
«Molti sono scettici e rassegnati, ma noi siamo qui a rappresentare tutte le comunità che si riconoscono cristiane e che, intorno al Santo Sepolcro, desiderano essere in silenzio e ascoltare la parola di Dio che chiama. Una parola che è benedizione. Con la benedizione di Dio saremo coraggiosi e semplici, miti e assetati di giustizia, saremo operatori di pace».
La Veglia
Nei primi giorni della Settimana santa – così come era accaduto l’anno scorso nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, affidata da molti anni alla Comunità ortodossa romena -, i fedeli con i loro ministri del culto delle diverse confessioni che compongono il Consiglio delle Chiese cristiane di Milano si ritrovano per scandire la propria invocazione di pace con una Veglia di preghiera.
Un desiderio condiviso e particolarmente rilevante, se si considera che alla preghiera prendono parte Chiese che, nei loro Paesi di origine, vivono conflitti anche religiosi, come il Patriarcato di Mosca e la Chiesa ucraina, e guerre dimenticate, come quella civile tra diverse etnie in Etiopia, e in Eritrea, dove il governo è intervenuto a deporre un Patriarca nominandone un altro filogovernativo e portando così a una divisione della comunità cristiana. A presiedere la celebrazione sono l’Arcivescovo, l’archimandrita Ioannis Batsis del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e la pastora Daniela Di Carlo, della Chiesa evangelica valdese e presidente di turno del Cccm. Da notare anche la presenza di tre sacerdoti ucraini della Metropolìa di Kiev, giunti in Italia per prendersi cura dei connazionali profughi in Diocesi.
Insomma, una preghiera sottolineata da tanti gesti simbolici, che si svolge nel complesso della chiesa e della sottostante cripta del Santo Sepolcro annesso alla Biblioteca Ambrosiana e che si avvia all’aperto – con un braciere nel quale arde il fuoco, poi spento a indicare che è possibile spegnere il fuoco della guerra -, prima della breve processione d’ingresso. Una scelta particolarmente felice, quella di San Sepolcro, come sottolinea nel suo saluto monsignor Francesco Braschi, dottore dell’Ambrosiana che rappresenta il Prefetto, monsignor Marco Navoni: «Come non desiderare che questo luogo, che custodisce al suo interno la memoria del Santo sepolcro di Gerusalemme, e la nostra città di Milano possano diventare uno spazio di tregua e di silenzio da cui uscire rafforzati come operatori di pace?», dice, richiamando «le vittime più indifese e innocenti della guerra», in riferimento agli orfani e ai bimbi abbandonati che San Gerolamo Emiliani radunava proprio in San Sepolcro nel Cinquecento.
Dopo la lettura tratta dal Libro del Deuteronomio – significativamente letto da don Igor Krupa, cappellano della missione San Josaphat per i fedeli ucraini cattolici di rito bizantino a Milano -, la meditazione dell’Arcivescovo è un inno alla speranza, pur nella consapevolezza delle difficoltà del presente.
Il tempo benedetto da Dio
«Per essere incisivi nelle vicende che sono le tribolazioni in cui siamo coinvolti, dovremmo essere più uniti e invece siamo divisi, più decisi e invece siamo incerti, più forti e invece siamo deboli», osserva per poi aggiungere: «Ci raggiunge però una parola, la rivelazione che Dio si prende cura dei suoi figli: è il rivelarsi del Dio vicino, della pace che può riconciliare. È la parola che chiama ciascuno per nome: una vocazione, un appello alla libertà. È la rivelazione della stima che Dio ha per la mia, la nostra intelligenza, la nostra capacità di scegliere, per la nostra dignità; la possibilità stupefacente, che è offerta noi uomini e donne, di ascoltare, di sostare, di riprendere il cammino cambiando direzione, scegliendo la via della vita. C’è una terra promessa. Questa terra a cui dare un nome è il nostro futuro».
Quel domani in cui credere e del quale la Veglia, come la definisce l’Arcivescovo, «è un segno» offerto agli «scettici, agli smarriti e rassegnati», che vedono il futuro come «dominato da un popolo di giganti, i signori della terra». Un segno con cui da «noi rappresentanti delle Chiese che vengono da tante parti della terra» si testimonia come «qui, a Milano», i cristiani «possono salutarsi, guardarsi negli occhi», condividendo «le sofferenze dei nostri popoli, della nostra storia», e camminando nella luce della Parola di Dio per proclamare che questo tempo «così tribolato» è «tempo benedetto da Dio, non perché tutto sia sistemato, ma perché Dio non ci abbandona».
Essere luce per il mondo
Concorde con questa visione di fede nell’unico Dio di Cristo anche la pastora Sophie Langeneck, della Chiesa evangelica metodista, che nella sua meditazione evidenzia: «Non io e non tu, ma noi insieme possiamo imparare e aspirare a essere la luce del mondo. Noi credenti in Gesù siamo chiamati. Quali scelte possiamo fare per continuare a percorrere sentieri di giusti? Come possiamo dire che i nostri luoghi di preghiera sono senza conflitto, che vogliamo che le nostre Chiese siano costruttive di pace? Ripartendo da noi stessi, rimarginando le violenze subite e agite per comprendere. E così possiamo far risplendere ancora di più la luce che abbiamo ricevuto da Gesù».
Mentre tutti i fedeli accendono al braciere posto al centro della chiesa una piccola candela che portano tra le mani, appunto a significare la luce di Cristo, risuonano le espressioni del Vangelo di Giovanni, «Vi lascio la pace, vi do la mia pace».
«La pace c’è sempre quando siamo con Dio, perché lui non ci lascia mai, per questo ha detto: “Non abbiate paura”», dice da parte sua l’archimandrita Ambrogio Makar, del Patriarcato di Mosca (ma ucraino di nascita). «Dobbiamo ricordare come possiamo avere questa pace, mettendo in pratica le sue parole – continua -. Quando siamo in Dio sentiamo come lui ci sostenga».
Infine, con il canto in memoria di tutte le vittime dei conflitti guidato dal Coro della Chiesa ortodossa russa del Patriarcato di Mosca, si scende nella millenaria cripta dove si prega «per la pace in tutte le terre, per i conflitti dimenticati» ai quattro angoli del mondo, «in Siria, Yemen, Sud Sudan, Congo, Libano, Afghanistan, Haiti, Myanmar». La recita corale del Padre Nostro, lo scambio della pace e la preghiera conclusiva – con uno stralcio di Erano tempi di guerra, scritto da Chiara Lubich nel 1943 -, precedono la benedizione e il saluto di commiato della pastora Di Carlo: «Le tenebre del venerdì santo e la Pasqua di risurrezione sono la metafora della vita stessa, eppure è proprio attraversando il venerdì che si arriva al messaggio che è al centro del Vangelo: la risurrezione che permette di sperare. Rimaniamo saldi in Cristo e nella sua risurrezione, ma teniamo uno sguardo dal basso», per non dimenticare «quei Paesi di cui non sappiamo niente, piccole realtà che non sono legate ai media e ai potenti». Perché Dio – come scriveva il teologo Dietrich Bonhoeffer, ucciso barbaramente dai nazisti nell’arile del 1945 – «non ci salva dalla sofferenza, ma nella sofferenza, non libera dalla croce, ma nella croce».