L’Arcivescovo ha presieduto in Duomo il solenne Pontificale, concluso da un augurio in diverse lingue: «Vinceremo la nostra tristezza quando prenderemo a cuore quella altrui»
di Annamaria
Braccini
«In questo mondo solcato dalla tristezza, eleviamo un cantico di gioia, il Gloria». Si apre così, con un invito alla gioia declinato dall’Arcivescovo nella responsabilità di ognuno di noi verso gli altri – specie verso quanti soffrono -, il Pontificale di Natale da lui presieduto in un Duomo affollato di fedeli e pieno di luce.
Concelebrata dal Capitolo metropolitano e da altri presbiteri, tra cui il Vicario episcopale per la Zona I, monsignor Carlo Azzimonti, la Messa si arricchisce dei canti tradizionali e dei 12 Kyrie peculiari della liturgia ambrosiana nelle solennità, eseguiti dalla Cappella musicale della Cattedrale. Ai piedi dell’altare maggiore – su cui dall’alto veglia la grande stella luminosa che diffonde la sua luce – c’è la statuetta del Bambinello, posta lì nella notte. Dalla pagina del Vangelo di Luca, con l’annuncio dell’angelo ai pastori, prende avvio l’omelia, che non dimentica l’oggi dei nostri Natali fatti di consumi più che di fede.
Felicità obbligatoria e sofferenza
«A Natale è quasi obbligatorio essere felici, tutti devono fare gli auguri, avere vestiti nuovi e una tavola imbandita con ogni ben di Dio. Ma il Vangelo dice di quella notte in cui i pastori erano all’aperto per vegliare tutta la notte: loro che, forse, possono essere tra quelli che rivendicano buone ragioni per essere tristi, perché non sono in una casa accogliente, non con la famiglia radunata, ma soli nel deserto. Nell’apparenza della gioia obbligatoria delle convenzioni, la tristezza è la constatazione delle tante persone che oggi, come gli altri giorni, si sentono tristi perché sono soli, malati, poveri, perché quest’anno manca una persona cara; tristi perché angosciati dalla guerra, dalle sorti del proprio Paese; tristi perché abitati dentro da un male oscuro a cui non si sa come mettere rimedio, perché la vita ha causato tante frustrazioni».
Eppure, il Vangelo dice appunto che l’angelo di Dio non è andato dove la famiglia «era radunata per un pranzo memorabile o nei palazzi dove sono esibiti i vestiti costosi». È andato presso i pastori e chi è segnato dalla tristezza: «Un angelo che porta un messaggio paradossale, l’annuncio di una grande gioia, perché è nato un bambino povero, che non ha trovato posto nell’albergo, che è deposto in una mangiatoia: perché è nato un salvatore come un neonato dalla fragilità impotente di fronte a tutte le cattiverie del mondo in cui crescerà».
E sono allora proprio i pastori che danno credito all’angelo e si mettono in cammino, riconoscendo la verità del messaggio: hanno visto e lo raccontano. «La festa del Natale è l’invito a credere all’annuncio che è nato il Salvatore, non una potenza che sconfigge i potenti, ma un’umanità nuova che rende praticabile essere donne e uomini rinnovati. Non un evento clamoroso, ma l’offerta di una vita possibile, l’essere figli di Dio».
«Siamo noi i messaggeri»
Da qui la responsabilità e il pensiero che torna al nostro tempo: «Forse oggi non si vedono angeli che vengono dal cielo o annunci che riempiono di luce una notte di faticoso lavoro. Credo che non vengano più perché siamo noi gli incaricati, i messaggeri della buona notizia, della parola che abbiamo ascoltato. Anche in noi, forse, vi è l’atteggiamento di essere convinti e giustificati nell’essere tristi, ma incontrando il Signore nella celebrazione eucaristica ci viene detto che siamo chiamati per una missione».
«Prendersi cura di coloro a cui sei mandato ti libera dalla tristezza – continua l’Arcivescovo -. Il Natale non è la recita precaria e temporanea, è piuttosto la rivelazione che percorre il Vangelo per raggiungere tutti gli uomini e le donne di questo nostro tempo con la responsabilità della missione. Prendetevi cura dei fratelli e delle sorelle, annunciate la gioia. Vinceremo la nostra tristezza, quando prenderemo a cuore quella degli altri. Tre parole sono il messaggio di questo Natale: la responsabilità della missione, l’attenzione a coloro che sono tristi e il contenuto del messaggio, la gioia della presenza tra noi del figlio di Dio».
Il pranzo all’Opera Cardinal Ferrari
E, prima della benedizione papale con l’indulgenza plenaria – impartita dall’Arcivescovo per facoltà ottenuta da papa Francesco nella forma consueta della Chiesa -, l’augurio di un felice Natale in francese, inglese, spagnolo. Al termine del Pontificale in Duomo, l’Arcivescovo ha visitato e partecipato al pranzo solidale organizzato dall’Opera Cardinal Ferrari, come tradizione natalizia dei Pastori ambrosiani da molti anni.
A tavola oltre 150 persone in più rispetto allo scorso anno: i Carissimi, le tante famiglie in difficoltà economica colpite duramente dal difficile autunno, le famiglie ucraine accolte in Domus Hospitalis e persone della comunità copta. E soprattutto i tanti volontari, cuore pulsante dell’Opera Cardinal Ferrari: una donna di 87 anni, la più grande, e un ragazzo di 17. E poi giovani universitari arrivati dalla Bocconi, dalla Marangoni e dalla Statale, di diverse nazionalità come Turkmenistan, Tunisia e Colombia.
«Nessuno è così ricco che non abbia bisogno di ricevere e nessuno è così povero che non abbia qualcosa da dare – ha affermato l’Arcivescovo – . È il senso della gratitudine che dobbiamo avere. Certamente c’è una Milano che esclude e che non si cura del prossimo, che vive di eccessi, ma ci sono tante persone che sanno essere grati e che accolgono, come all’ Opera Cardinal Ferrari, dove ci sono tanti volontari che donano il loro tempo anche nella giornata di Natale. C’è una Milano solidale che rivolge lo sguardo verso i più fragili».