Il libro di Andrea Riccardi sul ruolo del Papa durante l'Olocausto al centro di una tavola rotonda alla Fondazione Corriere della Sera, con il saluto dell'Arcivescovo e l'intervento, tra gli altri, di Liliana Segre
di Annamaria
Braccini
«Lo storico non vuole giudicare, ma comprendere. Ma cosa significa comprendere?». Parte da una domanda posta dall’Arcivescovo su «come si studia, si comunica e si legge un periodo della storia», la serata di presentazione del corposo volume di Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, dal titolo La guerra del silenzio. Pio XII, il nazismo, gli ebrei. Un tema dibattuto a lungo e tra i più controversi nelle ricostruzioni del periodo bellico e della Shoah, che Riccardi analizza in questo saggio frutto di decenni di ricerche presso gli Archivi vaticani e pubblicato da Laterza-Cultura storica. Accanto all’autore – nella Sala Buzzati della Fondazione Corriere della Sera gremita e con tanti collegati da remoto – un parterre di eccezione: oltre all’Arcivescovo che porge il saluto introduttivo, il presidente della Fondazione Ferruccio de Bortoli, la senatrice Liliana Segre, lo storico Agostino Giovagnoli e il giurista e criminologo Gabrio Forti, entrambi docenti in Cattolica.
Il dramma della Shoah
«Mi pare che di fronte al dramma di cui si parla, capire non significhi solo raccogliere dati o ricostruire profili di persone, ma riuscire a comprendere l’enigma terrificante che travolge ogni possibilità di comprensione. Comprendere la storia significa anche restare smarriti pensando a persone operose destinate a vivere e ad avere una missione, gettate nel vortice incontrollabile di una follia che le travolse – sottolinea l’Arcivescovo -. Significa vedere la tensione tra visioni diverse, interpretare l’angoscia di uomini che si pongono domande insolubili. Che dire, ad esempio, di Paesi cristiani che si proponevano l’annientamento di altre Nazioni di tradizione cristiana? Comprendere – che è un compito arduo – vuole dire anche porre l’interrogativo teologico sulla vicenda della storia, restando muti e sconcertati di fronte a Dio, senza mai perdere l’inquietudine», conclude Delpini.
Parole, queste, cui fa eco de Bortoli: «Il libro apre diverse questioni di coscienza e parla apertamente di sconfitta del cristianesimo. La trasparenza e l’ammissione di colpe e ambiguità è il modo migliore in cui si può anche dare merito ai giusti che, nella Chiesa, salvarono tanti ebrei, perché se l’esercizio della memoria viene fatto in termini forzati e solo difensivi, ha una dimensione relativa. Da questo libro, accanto a tante azioni meritorie e opere di bene compiute, salvataggi e aiuti, emerge l’incapacità del Vaticano di comprendere l’ampiezza della Shoah e la forza sinistra di un nazionalismo cattolico che non è scomparso e che si ripropone, oggi, in alcuni Paesi dell’est dimentichi della grandissima lezione di Giovanni Paolo II, che si scusò con gli ebrei, i nostri fratelli maggiori».
Segre: «Quando conobbi Pio XII»
Dal ricordo dell’udienza privata concessale dal Papa quando aveva 15 anni, nel 1945, grazie all’intervento di uno zio avvocato della Sacra Rota che era stato nascosto durante la guerra in Vaticano, si avvia l’intervento, a tratti commosso, della senatrice a vita: «Ne ebbi un’impressione enorme, fui colpitissima dallo sguardo del Papa. Gli occhi di Pacelli erano straordinari, perché parevano vedere al di là della realtà che aveva intorno e trasmettevano inquietudine e sofferenza interiore. Non lo dimenticai mai più: mi parve un uomo tormentato. Gli dissi che cercavo mio padre, che poi seppi era stato ucciso ad Auschwitz. Ripenso spesso alla fotografia del Papa con le braccia aperte tra la gente del quartiere San Lorenzo di Roma appena bombardato e mi sono chiesta se, con quelle stesse braccia aperte, non avrebbe potuto fermare il treno dei deportati del 16 ottobre 1943. Non sarebbe stato un urlo davanti all’oppressore, un gesto unico che avrebbe cambiato la sua vita e la storia? Quando ho iniziato a parlare della Shoah e ora che ho deciso di denunciare chi mi minaccia, ho scelto. Credo che anche il Papa dovesse fare una scelta, anche perché il suo tormento era visibile. Ricordo che alla fine dell’udienza – eravamo tutti inginocchiati – mi disse: “Alzati, davanti a te mi devo inginocchiare io”».
Il silenzio
Sul dibattito relativo ai silenzi vaticani, «amplissimo e nel quale si inserisce il prezioso volume di Riccardi», torna lo storico Giovagnoli, che richiama la necessità di non perdere di vista «la questione di base, ossia la narrazione che si avvia con la celebre opera teatrale Il Vicario di Rolf Hochhuth, ma che arriva fino ai giorni nostri e che delinea il silenzio di Pacelli come il frutto di una decisione di parte: non, certo, quella degli ebrei». Al contrario Riccardi, secondo Giovagnoli, «mette a fuoco una realtà diversa, non negando che il Papa e i suoi collaboratori sapessero ciò che si andava perpetrando, ma sottolineando il dramma di silenzi vissuti con tormento, tanto da sentirsi inadeguati».
«L’imparzialità di Pio XII, scelta per ragioni antiche – con l’idea del Papa quale padre comune -, si confermò nella convinzione che così si potesse mediare durante il conflitto. Essere imparziale non vuol dire essere neutrale, come vediamo anche oggi nelle posizioni vaticane sulla guerra in Ucraina, e come allora testimoniò il salvataggio di quasi 4000 ebrei nella città di Roma. Tuttavia è indubbio che tale imparzialità abbia, per così dire, creato una gabbia che non si riuscì a superare», aggiunge lo storico, che evidenzia anche i silenzi nel dopoguerra: «Un capitolo diverso, ma ugualmente doloroso, perché la domanda sul perché diventa ancora più drammatica».
«Che cosa ha permesso che le persone mettessero da parte la loro fede e commettessero atti atroci? Da questo punto di vista, la vicenda ha aspetti ripetibili che sono essenziali: questa è la memoria che maggiormente interessa», spiega il giurista Forti che evidenzia il problema, anche da un punto di vista giuridico e normativo, «del perché si interrompa il rapporto tra la consapevolezza e la coscienza». Figura emblematica, in tale contesto, fu monsignor Angelo Dell’Acqua, sacerdote ambrosiano, futuro cardinale e minutante della Segreteria di Stato con Pio XII, «che minimizza, dicendo che gli ebrei esageravano e sostenendo che fosse necessario scegliere il male minore». Dell’Acqua fu una persona «priva di quella inquietudine che, al contrario, è un connotato peculiare del cristiano, per non accettare passivamente ciò che accade, senza semplificare e sapendo vedere la potenza del negativo». Una lezione – come si evince anche dal Discorso alla Città 2022 dell’Arcivescovo – «che vale anche per l’oggi».
Andare oltre le semplificazioni
Un oggi nel quale le semplificazioni «vanno di moda perché servono per rassicurarci di fronte alle difficoltà e alla complessità. Quando si è definito Pio XII il Papa di Hitler, si è fatto solo semplificazione», dice in conclusione Riccardi, ricordando il lavoro più che quarantennale da cui è nato il saggio, la cui chiave di lettura è la parola «esagerazione, per comprendere che, talvolta, non essere riusciti a capire cosa veramente accadde con la Shoah fu anche una sorta di difesa».
«Ho trovato questa parola nelle carte vaticane e quanto si sarebbe potuto fare la storia meglio, e anche con più giustizia per la Chiesa stessa, se fossero stati aperti prima gli Archivi. Dimentichiamo spesso che, allora, il Vaticano era una barchetta formata da una cinquantina di uomini, chiusi tra mura, non con la struttura e il clamore mediatico mondiale attuale. Il Papa sentiva la responsabilità verso i cattolici nel loro complesso e aveva timore, ponendosi anche il problema di chi avrebbe vinto la guerra almeno fino al 1943, tanto che il silenzio riguardò anche la cattolicissima Polonia invasa dai nazisti, che infatti si sentì tradita dal suo silenzio».
«Ho scritto questo libro non per giudicare, ma per analizzare. Dal campanile non si vede la Chiesa, si vede il mondo. Negli archivi c’è una documentazione immensa sul dolore della guerra e si deve dire quanto Pio XII e i suoi collaboratori si fecero toccare da questo dolore. Il limite fu, forse, non vedere il mostro del nazismo. D’altra parte, la fascinazione del mostro la vediamo, al tempo, anche negli ustascia croati con la violenza cattolica di Ante Pavelić. Era l’anima nazional-cattolica, che purtroppo non è scomparsa. Tuttavia, ritengo che il silenzio del dopoguerra sia quello più doloroso, perché la Chiesa cattolica si sentì vittima del comunismo e ciò accecò la visione dei suoi uomini. Per questo ho parlato di un fallimento per il cristianesimo, così come lo è adesso la guerra in Ucraina con lo spaccarsi del mondo religioso ortodosso».
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