Parla Raffaella Di Grigoli, che da bambina guarì da una gravissima malattia per l'accertata intercessione di don Ciceri: «In Brianza la sua fama di santità era già diffusa nella mentalità popolare»

di Annamaria Braccini

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Un'immagine dei funerali di don Ciceri

Oggi lavora nel settore amministrativo dello stesso ospedale – il Valduce di Como – dove nel 1975, quando aveva 7 anni, in articulo mortis le venne amministrata la Cresima e ricevette l’Unzione degli Infermi. Raffaella Di Grigoli, di Veduggio, racconta con semplicità la sua vicenda e come la devozione per don Mario Ciceri, coltivata da sempre in famiglia, l’abbia salvata. Una convinzione non solo sua, ma anche della Chiesa, che ha riconosciuto il miracolo attribuito al futuro beato.  

Di che tipo di miracolo si tratta?
Ero affetta da megacolon, una malattia congenita, che sin dalla nascita fa sì che il colon sia di lunghezza doppia del normale rispetto all’intestino. Il 16 settembre 1975 fui ricoverata all’ospedale Valduce di Como: si tentarono due primi interventi chirurgici e successivamente altrettante operazioni che non diedero risultato. Ebbi la peritonite, le ferite non si rimarginavano, a detta dei sanitari ero gravissima, come ho saputo in seguito. Ero solo una bambina, ma ricordo che soffrivo tanto. Sono stata ricoverata per cinque mesi, da settembre del 1974 a febbraio del 1975. Ormai anche il professore che mi aveva operato disperava. Poi tentò un ultimo intervento, che riuscì a risolvere la situazione: era una tecnica diversa e non sperimentata prima, che disse di aver visto in sogno.

In tutto questo come entra don Ciceri?
I miei nonni – anche loro si chiamavano Ciceri ed erano lontani parenti di don Mario – all’ingresso di casa avevano una sua fotografia: la sua figura, quindi, mi era familiare fin da quando ero piccola. Mia nonna mi chiedeva sempre se avevo pregato davanti alla sua immagine, recitando il Gloria, perché era un santo: così era già conosciuto nella mentalità popolare delle nostre terre. Durante il mio ricovero, la nonna e mia zia, Carla Ciceri, pregavano incessantemente don Mario per la mia guarigione; so che i miei cugini andavano a piedi in pellegrinaggio al Santuario della Madonna del Bosco di Imbersago, sempre con la figura di don Ciceri nel cuore. Oggi sono sposata e, anche se me l’avevano sconsigliato, ho avuto un figlio, che ha 16 anni, e una vita normale. Nella mia famiglia abbiamo sempre continuato a pregare don Mario, avendo la certezza che la sua vita sia stata eroica seppure senza grandi clamori.

Avvicinandoci alla beatificazione quali sono i suoi sentimenti?
Provo gioia e riconoscenza, naturalmente, ma anche un senso di umiltà, perché sento di essere solo un mezzo perché lui possa essere elevato dalla Chiesa agli onori degli altari (anche se, ripeto, santo per noi lo era già…). Oggi quella foto, appartenuta ai miei nonni, è mia e la custodisco gelosamente. In questa terribile situazione di guerra, preghiamo mattina e sera, rivolgendoci a don Mario – che conobbe ben due guerre mondiali – perché torni la pace. Ma tutti, a Veduggio, si rivolgono al nostro futuro beato, perché la sua fama di santità non si è mai affievolita.

 

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