Per Elio Franzini, rettore dell’Università statale di Milano, il Discorso alla Città insegna a non lamentarsi davanti alla storia, a far emergere il senso spirituale del mondo e a elaborare un tessuto sociale nel dialogo con l’altro
di Elio
FRANZINI
Rettore dell’Università degli Studi di Milano
«Benvenuto, futuro!», il Discorso alla città dell’arcivescovo Delpini, è un monito a una realtà complessa, che vede l’avvenire, ma non può dimenticare né il passato, né la voce di coloro che avvenire non sembrano poter sperare. Ed è un richiamo a comprendere il senso profondo delle dimensioni del tempo. Nel rapido e a volte superficiale avvicendarsi della contemporaneità non si ha quasi percezione che gli atti umani perpetuati nel tempo, pur modificandosi nelle espressioni, non perdono il loro valore di matrice, e vanno invece incessantemente a conformare la vita interiore di ogni individuo, rappresentando una parte importante della storia della cultura materiale e immateriale degli uomini. Questa contrapposizione – tra lentezza costruttiva e velocità effimera – va senza dubbio accettata e compresa come un dato di fatto che caratterizza i nostri giorni. Occorre tuttavia anche considerare che se non si comprende questa frattura, con tutti i suoi esiti possibili, essa può impedire il formarsi di un clima culturale che consenta, specialmente ai più giovani, di potersi ancora accostare ai valori della tradizione, per una più organica comprensione del passato nel formarsi di un’identità del presente.
Una delle prime questioni che emerge dal Discorso sono dunque i modi con cui affrontare il futuro che ci attende nei suoi stratificati scenari. Nel 1912 Franz Marc, un grande artista che qualche anno dopo sarebbe morto in guerra, si pone la domanda decisiva, quella cui sempre siamo chiamati a rispondere: «A che scopo nuovi quadri e nuove idee? Che cosa ce ne facciamo? Abbiamo già sin troppa roba vecchia, che non ci diverte, ma che ci è stata imposta dalla tradizione e dalla moda». La risposta di Marc non è individualista, affermando che «la gente non vorrà, ma dovrà», dal momento che «il nostro mondo ideale non è un castello di carta con cui ci trastulliamo, ma racchiude in sé gli elementi di un moto che oggi fa sentire le sue vibrazioni in tutto il mondo».
Il nuovo umanesimo che l’Arcivescovo richiama deve dunque svolgere in via prioritaria la funzione di far comprendere il senso del percorso tra le dimensioni del tempo: se cessassimo di credere nell’avvenire il passato non sarebbe più pienamente il nostro passato, ma diverrebbe soltanto il lascito di una civiltà morta. Un autentico umanesimo ha lo scopo di costruire una linea di tensione costruttiva tra il passato e il futuro, consapevoli che i mutamenti devono essere compresi nel loro sviluppo diacronico, e mai risolti in una banalizzante sincronicità.
Il futuro non è dunque, come scrive monsignor Delpini, il principio della speranza, bensì è la speranza a essere «il principio del futuro». Questo principio è l’esperimento cui tutti siamo sempre di nuovo chiamati. Un filosofo del secolo scorso, Ernst Bloch, ricorda infatti che il principio speranza è la concreta visione, la possibilità autentica di un nuovo mondo, di una profezia che non sia come quella greca, che annuncia un futuro che non può annullare, ma una profezia nuova, che indica un Dio che incide nella storia attraverso il libero arbitrio dell’uomo. È questo ciò che chiama «il segno di Giona»: i profeti non parlano categoricamente del futuro come di una realtà fissa quanto ipotetica, tale da risultare alterabile o alternativa ma, al contrario, di un futuro che può essere cambiato.
È questo che ci insegna il Discorso dell’Arcivescovo: per costruire il futuro, e di conseguenza la nostra prospettiva sul futuro, e gli uomini che lo abiteranno, la collettività delle persone, non bisogna abdicare di fronte agli avvenimenti, per quanto essi sembrino stabiliti nel sovramondo. Noi non possiamo prevedere il destino, ma essere consapevoli che di fronte alla storia non ha senso una lamentazione passiva: noi abbiamo la possibilità di fare emergere il senso spirituale del mondo. Seguire il filo rosso del libero arbitrio non per ricostruire una storia pacificata, né per cercare una soluzione certa, bensì per cogliere, nel presente, quegli elementi che sempre fanno ricominciare ciò che è vivo, per far diventare la nostra esistenza un laboratorio che rinnova l’esperimento del mondo.
Senza dimenticare mai, ed è un ulteriore insegnamento che ho tratto dal Discorso, che negli obiettivi che ci poniamo dobbiamo sempre a tutti, in primo luogo nei nostri gesti e luoghi quotidiani, rispetto e compassione. Giovanni Battista Montini, negli anni Trenta del Novecento, nel pieno della dittatura, rivolgendosi a un gruppo di universitari, seguiva questa strada, indicando come dovere formativo per non rimanere prigionieri di un’imbarazzante autoreferenzialità, spirito critico e carità intellettuale. Spirito critico, cioè autonoma capacità di giudicare, carità intellettuale, ovvero disponibilità ad accogliere l’altro, l’intelligenza che deriva dal confronto con la differenza. Solo nel dialogo, nel confronto con l’alterità, nella capacità di rendere produttiva una molteplicità di punti di vista potremo sviluppare questi obiettivi, attraverso i quali va elaborato il tessuto sociale, culturale e spirituale della nostra città come spazio collaborativo e inclusivo, costruttore di progetti nuovi. Solo questo ci porterà verso il futuro, in modo tale che, come si legge nel Discorso, gli uomini possano davvero camminare insieme.08