Per Lucia Capuzzi, direttrice artistica del Festival, la stessa scelta delle Colonne di San Lorenzo, nel cuore della movida milanese, quale location centrale dell'evento, esprime la volontà di intercettare e coinvolgere un pubblico ampio, magari non così vicino alle tematiche missionarie
di Annamaria
Braccini
Un evento che è più di un evento, perché si tratta di un processo e di un tessuto di relazioni ecclesiali e civili che abbiamo pensato e preparato. È questa, in sintesi, la definizione che Lucia Capuzzi, giornalista e direttrice artistica del Festival della Missione, usa per illustrarne il significato con una Milano che sarà, dal 29 settembre al 2 ottobre, la capitale italiana di tante realtà missionarie.
Dove si svolgerà il Festival?
Come location centrale dell’evento abbiamo scelto un luogo fortemente simbolico, che già esprime il significato della kermesse: la zona delle Colonne di San Lorenzo, che si trova nel cuore della città e della movida giovanile per intercettare, in modo anche molto libero e informale, coloro che sono magari lontani dalle nostre tematiche. L’idea è quella di “esserci”, di inserirsi nel tessuto sociale, di parlare alla città, di portare nella metropoli la voce del Sud del pianeta, utilizzando – se così si può dire – i missionari come finestre spalancate sul mondo.
In che senso?
I missionari sono ponti straordinari per collegarci con realtà che spesso non vediamo. Ci permetteranno di fare, invece, esattamente questo, raccontando i luoghi più invisibili e offrendo una narrativa diversa rispetto a ciò che accade lontano da noi. Ovviamente, i giovani saranno gli interlocutori privilegiati di questa proposta che intende ampliare la conoscenza e non dare risposte definitive o convertire qualcuno facendo proseliti. A livello personale, mi riterrò soddisfatta se una persona, avendo partecipato anche solo a un momento del Festival, si porrà qualche domanda.
L’evento, quindi, vuole essere inclusivo di molte dimensioni per non cristallizzarsi sul concetto tradizionale della missione?
Sì, perché tutto è missione. Troppo spesso coltiviamo un’idea ancora ottocentesca con i missionari italiani, spesso con la barba bianca, che partono per convertire altre zone della Terra. Mentre la missione è la presenza e la testimonianza che si dà a tutti con rispetto e volontà di dialogo. E, così, abbiamo dialogato anzitutto tra noi. Penso alla direzione artistica, dove gran parte del lavoro è stato realizzato da Alessandro Galassi, il mio primo collaboratore, con un impegno di squadra che vorrei definire sinodale. Poi ci siamo aperti ad altre realtà perché il Festival non rimanesse, appunto, qualcosa di seppur bello, ma chiuso nei quattro giorni dell’evento. Sono stati molto significativi, per esempio, gli incontri svoltisi nelle carceri a Milano, ma anche in altre città, per far sì che i detenuti, raccontandosi, potessero trovare chiavi interpretative diverse per leggere la loro esperienza. Abbiamo, infatti, scelto come paradigma quello della giustizia riparativa, che cerca di stabilire un contatto tra un colpevole consapevole del suo errore e le vittime.
Non a caso il tema del Festival è il perdono…
Il titolo è “Vivere per-dono”, giocando su queste tre parole e declinandole in un’ottica laica. Dunque, il vivere la vita, con tutte le sue componenti di resistenza e di resilienza; il «per» che implica le diverse tipologie di relazione e il dono, che è l’essenza della missione in una gratuità che supera la logica dello scambio. Ovvio che «per-dono» si possa leggere anche come l’unica parola perdono. Su questo, infatti, abbiamo centrato sia i tanti eventi del pre-festival, che è in corso, sia quelli del post-festival che inizierà il 3 ottobre.