Nel 43° anniversario della morte di Paolo VI (6 agosto 1978), proponiamo un contributo di monsignor Pasquale Macchi, suo segretario, pubblicato su “Ambrosius" n.1 del gennaio-febbraio 1989, che sottolinea il suo legame con la Chiesa ambrosiana
di monsignor Pasquale MACCHI
Segretario personale di Paolo VI
Non è facile esporre in poco spazio quale fu l’animo di Mons. Montini e poi di Paolo VI verso la sua diocesi di Milano: un susseguirsi in crescendo di interesse, di attenzione, di stima e di scrupolosa ricerca per coglierne tutte le dimensioni fin nelle più nascoste sfumature, segnano il suo permanere come pastore e poi il suo ricordo e la sua premura di Papa.
Fin da quella uggiosa e fredda giornata della sua entrata in diocesi (il 6 gennaio 1955), in piedi nell’auto scoperta, per vedere e salutare la folla che lo attendeva lungo le strade del centro della città, appare la sua totale dedizione che lo tiene legato alla diocesi nello sforzo di conoscerla nella sua vastità così ampia, nelle sue forme di vita così diverse e molteplici, nei suoi bisogni drammatici sia spirituali che temporali. Ma, forse, il colpo d’occhio più efficace sulla profondità del suo amore per Milano lo si rileva quando strappato alla sua azione di vescovo meglio può rivelare il suo affetto per la diocesi da lui animata per più di otto anni.
«Milano! Milano con la sua vasta area diocesana dove vivono circa quattro milioni di anime, di figli, quindi! Milano a cui speravo di consacrare fino all’ultimo i giorni della mia vita e alla quale ho cercato di offrire quanto potevo, sempre con la pena nel cuore di dare assai meno di quanto essa meritava e aveva bisogno. Posso però dire con schiettezza, con tutta la misura delle forze del mio cuore: cari Milanesi, vi ho voluto bene!» È questo il suo saluto affettuoso il 29 giugno 1963 rivolto al primo pellegrinaggio di milanesi accorsi a Roma per la sua incoronazione. Il suo nuovo compito che mette sulle sue «povere spalle un peso ingente» rende il suo cuore più aperto, per essere il Padre di tutti. «Gli orizzonti dell’amore si sono talmente dilatati» e gli indicano un programma di sollecitudine generale, nel quale però la sua antica diocesi resta presente. «Vi amerò di più, carissimi fratelli e figli… Come una madre non attenua l’amore al figlio quando altri se ne aggiungono, così spero fermamente che sarà della mia carità verso di voi. Continuerò ad amarvi come figli, direi primogeniti…».
Sono espressioni dettate dall’emozione del momento, ma sono realtà che negli anni seguenti diventano episodi concreti, spesso nascosti nel ricordo devoto di quanti ne sono stati destinatari. Credo che in Diocesi siano molti e molti coloro (sacerdoti, religiosi e laici) che potrebbero testimoniare interventi premurosi, delicati ed efficaci, come era nel suo stile di sempre. Ma la storia si costruisce con fatti nascosti, umili e quotidiani più che con solenni e vistosi interventi utili più alla gloria di chi li compie che non alle necessità di chi li riceve. E lo stile di Papa Montini era precisamente un atteggiamento di servizio utile e concreto, attento soltanto a trasmettere un amore che veniva da Dio.
Così passarono anni e anni in un Pontificato di responsabilità e di lavoro coraggioso e intelligente: ogni tanto, qualche visita di milanesi faceva rifiorire l’antico e mai sopito amore per quella che fu la sua diocesi. Il momento più commovente fu nell’occasione del suo ottantesimo compleanno, quando un folto pellegrinaggio di milanesi e di bresciani lo accolse nella sala delle udienze sventolando tutti una copia del Giornale Avvenire voluto da lui come unico quotidiano cattolico italiano. Quel giorno (1° ottobre 1977) la commozione del Papa si sentiva nelle sue parole e nel tono della voce soprattutto quando ricordò il suo ministero milanese, con quella umiltà e delicatezza che lo hanno sempre caratterizzato. «A Milano che cosa diremo? Come dire innanzi tutto la sensazione quasi oppressiva che mi ha riempito lo spirito della tua grandezza, della tua superiorità, della tua sproporzione con le mie troppo umili forze? Ognuno di voi… avete compreso… Ma siete stati buoni e pazienti con me: ho cercato di superare la timidezza e la debolezza profittando della vostra umanissima cordialità e mettendo a profitto nel mio lavoro pastorale la spontanea e generosa abbondanza del vostro sentimento naturaliter christianus».
Parole così dicono con immensa dolcezza l’animo di Paolo VI, il suo affetto sempre attento per la sua diocesi, dove la volontà provvidenziale di Dio lo aveva inviato quasi a prepararlo al grande compito di pastore della chiesa universale.
Riandando ora, a dieci anni dalla sua morte, a questo aspetto dell’animo di Paolo VI, riusciamo ancora una volta a leggere l’amore e la pienezza di dedizione, la premura e la generosità, la finezza di spirito che ha distinto questo pastore, e ne ha seminato nel mondo intero le più nobili virtù: riusciamo a comprendere quale immenso dono di Dio sia stato per Milano e per il mondo, un vescovo e un Papa dal cuore umile e grande, teso alla imitazione del cuore stesso dell’unico Eterno Pastore.