Sessant’anni fa la morte di Angelo Roncalli. L’allora Arcivescovo di Milano fu al suo capezzale e poi ne raccolse l’eredità

di Marco RONCALLI

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Giovanni XXIII e l'arcivescovo Montini

Sessant’anni fa, pochi giorni prima che iniziasse la prima agonia di un Papa vegliata dal mondo intero, con migliaia di persone oranti in Piazza San Pietro e molte di più attaccate alla radio e alla televisione, si seguivano le ultime sequenze nella vita di Giovanni XXIII.

Sceso per l’ultima volta in San Pietro il 15 maggio, scrisse l’ultima pagina del suo diario sotto la data del 20, rivelando il «grande dolore fisico» che stava consumandolo. Cinque giorni dopo, auspici di guarigione e consolazioni gli arrivarono da Milano. Il cardinale Montini così gli scriveva: «Possa la Santità Vostra cogliere i frutti del Suo apostolico ministero nel Concilio ecumenico, che alla sua prossima seconda sessione desidera averLa in mezzo alla sua grande assemblea, rinfrancato nelle forze del corpo e sempre magnifico in quelle dello spirito». Lo informò anche circa la posa della prima pietra di una nuova Chiesa alla periferia cittadina dedicata a San Gregorio Barbarigo, nonché della firma apposta al decreto di fondazione dell’Accademia di San Carlo per promuoverne l’approfondimento, come il Papa aveva desiderato.

La risposta arrivò a Milano il 28 maggio, attraverso il Segretario di Stato, il cardinale Cicognani, che riferiva testualmente il commento papale: «In realtà con San Carlo sono di casa. E poi c’è il ricordo del Cardinale Ferrari. Questa Accademia di San Carlo l’ho desiderata da cinquant’anni a questa parte; vi ho insistito un poco; il Cardinale Montini ha capito subito e i suoi bravi milanesi lo hanno assecondato…».

Il viaggio a Roma

Le condizioni del Pontefice però l’indomani precipitarono e l’Arcivescovo scese nella cripta in Duomo a pregare per la salute del Papa davanti al corpo di San Carlo e alla tomba di Ferrari. Nel pomeriggio del 31maggio partì da Linate per Roma in aereo insieme ai tre fratelli del Papa, Saverio, Alfredo e Giuseppe, alla sorella Assunta, e a due nipoti, Privato e Zaverio. Atterrato nella capitale con loro si precipitava nel Palazzo Apostolico per dare a Roncalli quello che sarebbe stato il suo penultimo saluto. «Ho pregato accanto al nostro veneratissimo Papa e poi ho osato accostarmi e gli ho baciato la mano inerte», scrisse Montini ai milanesi accennando alla diffusa commozione sul volto dei cardinali e dei congiunti seduti intorno al letto immobili, lo sguardo verso il Papa, «quasi a contarne i respiri e a rievocarne le paesane memorie, con pietà umana serenissima e devozione sicura della sua fede davanti all’incombente mistero della morte come se fosse avvenimento solenne e soave».

L’ultimo incontro

L’ultimo definitivo saluto fu invece quello del giorno seguente quando, ritornato al capezzale del Papa, gli venne riferito che nella notte aveva avuto momenti di lucidità, riconoscendo i presenti e ripetendo in latino le parole: «Io sono la risurrezione e la vita, vado a Cristo, desidero essere sciolto da questa vita mortale per essere nella vita mortale». E a proposito di questo incontro ricorderà poi Montini con altro vello: «Pregammo per un po’ con gli altri e poi lo lasciai con grande dolore, perché prevedevo che sarebbe stata l’ultima volta che avevo la fortuna di avvicinarlo».

Il ricordo di Capovilla

Anche il segretario monsignor Loris Capovilla – futuro Cardinale centenario – ha più volte rievocato quelle ore quando, accanto al Papa morente, l’Arcivescovo di Milano gli aveva parlato della loro antica amicizia. Pur desideroso di rimanere lì, non volendo disattendere impegni in diocesi – la visita pastorale a Cardano al Campo e la partecipazione nel Velodromo Vigorelli alla Notte Santa dei Giovani di Ac – l’1 giugno Montini rientrò a Milano.

Alla gente di Cardano disse: «Voi potete pensare che una scena è nel mio spirito, davanti agli occhi del mio animo: la scena del Papa che muore». Ai giovani dell’Ac: «È il nostro Padre in Cristo che ci lascia, è il capo della nostra Chiesa cattolica che cede al peso degli anni e all’assalto dell’infermità umana, è il Papa, il nostro Papa Giovanni XXIII che ci lascia orfani della sua sensibile, dolcissima presenza!».

La scritta sul Duomo

Il 2 giugno celebrò la Pentecoste, ma nell’omelia parlò più del Papa che della festa. «Noi ambrosiani potremmo dire: un Papa nostro», affermò Montini, che il 3 giugno, ritornando dalla visita pastorale a Tornavento (in provincia di Varese), apprese dalla radio la notizia della morte del Papa. Tutto da rileggere il testo del suo discorso in Duomo, sulla cui facciata fece esporre un manifesto con queste parole: «I Milanesi uniti nel rimpianto e nella preghiera accompagnano verso il paradiso Giovanni XXIII della terra lombarda figlio ed amico. Pastore buono. Papa del Concilio e della Pace».

Lo pronunciò il 7 giugno quando ne celebrò l’ufficiatura funebre in suffragio esprimendo tutta la sua volontà di raccogliere l’eredità giovannea. Disse: «Giovanni XXIII ci ha fatto vedere che la verità, quella religiosa per prima, così delicata, così difficile, così esigente, anche nelle sue inesorabili precisioni di linguaggio, di concetto e di credenza, non è fatta per sé, per dividere gli uomini e per accendere fra loro polemiche e contrasti, ma per attrarli tutti a unità di pensiero, per servirli con premura pastorale, per infondere negli animi di tutti la gioia della conquista e della vita divina. Già sapevamo questo, ma Egli ce ne ha fatto godere l’esperienza, ce ne ha dato la speranza, ce ne ha promesso la pienezza». 

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