«La cultura del benessere ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere bolle di sapone», ribadisce Francesco mettendo in guardia ancora una volta dalla «globalizzazione dell’indifferenza»
di Maria Michela
NICOLAIS
“La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza”. Sette anni dopo il suo primo viaggio fuori dal Vaticano, Papa Francesco ha ripetuto le parole pronunciate a Lampedusa l’8 luglio del 2013. Nell’omelia della messa celebrata ieri per i migranti nella cappella di Casa Santa Marta, in occasione del settimo anniversario del suo viaggio apostolico, davanti a un numero ristretto di partecipanti – il personale della sezione rifugiati del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale – imposto dalle restrizioni legate all’emergenza sanitaria in corso, il Papa è tornato a chiedere “un esame di coscienza” su uno dei temi portanti del pontificato e sull’inferno della Libia, di cui “ci danno una versione distillata”.
“Oggi ricorre il settimo anniversario della mia visita a Lampedusa”, ricorda Francesco, che ribadisce quanto ha detto ai partecipanti al meeting “Liberi dalla paura” nel febbraio dello scorso anno: “L’incontro con l’altro è anche incontro con Cristo. Ce l’ha detto Lui stesso. È Lui che bussa alla nostra porta affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato, chiedendo di essere incontrato e assistito, chiedendo di poter sbarcare. E se avessimo ancora qualche dubbio, ecco la sua parola chiara: ‘In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’”. “‘Tutto quello che avete fatto…’, nel bene e nel male!”, esclama il Papa. “Questo monito risulta oggi di bruciante attualità. Dovremmo usarlo tutti come punto fondamentale del nostro esame di coscienza, quello che facciamo tutti i giorni”.
“Penso alla Libia, ai campi di detenzione, agli abusi e alle violenze di cui sono vittime i migranti, ai viaggi della speranza, ai salvataggi e ai respingimenti”, l’elenco stilato da Francesco: “Tutto quello che avete fatto… l’avete fatto a me”. Poi il racconto a braccio, con il fotogramma che è rimasto più impresso nella sua mente: “Ricordo quel giorno, sette anni fa, proprio al Sud dell’Europa, in quell’isola… Alcuni mi raccontavano le proprie storie, quanto avevano sofferto per arrivare lì. E c’erano degli interpreti. Uno raccontava cose terribili nella sua lingua, e l’interprete sembrava tradurre bene; ma questo parlava tanto e la traduzione era breve. ‘Mah – pensai – si vede che questa lingua per esprimersi ha dei giri più lunghi’. Quando sono tornato a casa, il pomeriggio, nella reception, c’era una signora – pace alla sua anima, se n’è andata – che era figlia di etiopi. Capiva la lingua e aveva guardato alla tv l’incontro. E mi ha detto questo: ‘Senta, quello che il traduttore etiope le ha detto non è nemmeno la quarta parte delle torture, delle sofferenze, che hanno vissuto loro’. Mi hanno dato la versione ‘distillata’. Questo succede oggi con la Libia: ci danno una versione ‘distillata’. La guerra sì è brutta, lo sappiamo, ma voi non immaginate l’inferno che si vive lì, in quei lager di detenzione. E questa gente veniva soltanto con la speranza e di attraversare il mare”.
Il punto di partenza dell’omelia è l’imperativo del Salmo 104, in cui si legge che la ricerca costante del volto del Signore costituisce “un atteggiamento fondamentale della vita del credente, che ha compreso che il fine ultimo della propria esistenza è l’incontro con Dio”. “La ricerca del volto di Dio è garanzia del buon esito del nostro viaggio in questo mondo, che è un esodo verso la vera Terra Promessa, la Patria celeste”, garantisce il Papa: “Il volto di Dio è la nostra meta ed è anche la nostra stella polare, che ci permette di non perdere la via”. Il popolo d’Israele, descritto dal profeta Osea nella prima lettura di oggi, “all’epoca era un popolo smarrito, che aveva perso di vista la Terra Promessa e vagava nel deserto dell’iniquità”, fa notare Francesco: “La prosperità e l’abbondante ricchezza avevano allontanato il cuore degli Israeliti dal Signore e l’avevano riempito di falsità e di ingiustizia”.
“Si tratta di un peccato da cui anche noi, cristiani di oggi, non siamo immuni”, il monito. “Protesi alla ricerca del volto del Signore, lo possiamo riconoscere nel volto dei poveri, degli ammalati, degli abbandonati e degli stranieri che Dio pone sul nostro cammino”, ribadisce il Papa lanciando un appello alla conversione. “L’incontro personale con il Signore, tempo di grazia e di salvezza, comporta la missione”, la consegna: “Questo incontro personale con Gesù Cristo è possibile anche per noi, discepoli del terzo millennio. E questo incontro diventa anche per noi tempo di grazia e di salvezza, investendoci della stessa missione affidata agli apostoli”.
“Incontro e missione non vanno separati”, la raccomandazione a braccio.