Il diritto alla libertà di culto, il dialogo con l’islam, la laicità dello Stato: questi i principi fondamentali della vita e del ministero del Vescovo, cappuccino milanese, Vicario apostolico in Anatolia, barbaramente assassinato dieci anni fa nella sua casa a Iskenderun

di Giuseppe GRAMPA

Monsignor Padovese con il cardinale Tettamanzi
Monsignor Padovese con il cardinale Tettamanzi

Quando dieci anni fa, il 3 giugno 2010, arrivò a Milano la notizia dell’uccisione di monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico in Turchia, il cardinale Dionigi Tettamanzi così ne diede commossa notizia ai milanesi: «Porta e non muro è stata la vita di monsignor Padovese, spesso sotto scorta eppure così libera di annunciare il Vangelo in terra arida; porta e non muro la Chiesa che egli ha voluto, piccolo gregge aperto all’amicizia delle genti; porta e non muro per accogliere fino alla fine, come te signore Gesù, le lacerazioni che abitano i cuori dei popoli e degli uomini, anche di colui che ha follemente levato la sua mano, per il quale lui continua a essere fratello e padre».

Monsignor Padovese era nato a Milano nel 1947 e nella nostra città aveva compiuto gli studi e il percorso formativo nell’ordine dei Frati Minori Cappuccini, fino all’ordinazione presbiterale il 13 giugno 1963. Ho avuto la grazia, davvero una grazia, di conoscerlo in tre occasioni, indimenticabili.

La prima il 28 dicembre 2006 con don Giovanni Barbareschi e altri amici durante un viaggio in Turchia nelle vacanze natalizie. Cordialissima la sua accoglienza nella sua casa di Iskenderun. In quella città del sud della Turchia era giunto nell’ottobre 2004 come vescovo per la cura di una comunità cattolica dispersa in un grande Paese, la Turchia, che conta circa 78 milioni di abitanti. Il territorio a lui affidato occupava più della metà del Paese, nella parte est.

Ricordo nitidamente la conversazione quella sera. Ci raccontò dei suoi anni milanesi (la sua mamma allora viveva ancora a Milano): dal 1973 al 2004, anni di studio e insegnamento in diverse istituzioni accademiche romane e anche milanesi. Ci parlò della scelta compiuta a 17 anni di entrare nell’ordine dei Frati Minori Cappuccini, che aveva segnato la sua vita.

Pochi giorni dopo l’ordinazione episcopale, parlando ai suoi confratelli, chiese loro: «Vi chiedo di aiutarmi a rimanere un Cappuccino Vescovo e non un Vescovo Cappuccino». Essere frate cappuccino era per lui scelta di “minorità”, perché Francesco d’Assisi voleva per sé e per i suoi frati che fossero «minores et subditi omnibus», minori, piccoli e servi di tutti. L’umiltà, normale atteggiamento degli schiavi, era per il vescovo Luigi la condizione di quanti hanno posizioni di guida nella comunità.

Quando scelse come campo di ricerca e insegnamento le opere dei Padri della Chiesa e delle origini cristiane, certo non pensava che trent’anni dopo sarebbe stato chiamato a servire quella Chiesa di modestissime proporzioni, ma di straordinaria importanza per il mondo cristiano. E certo non pensava che il suo sangue sarebbe stato versato su quella terra. Scriveva ai suoi fedeli nell’ottobre 2005: «Tra tutti i Paesi di antica tradizione cristiana, nessuno ha avuto tanti martiri come la Turchia. La terra che noi calpestiamo è stata lavata con il sangue di tanti martiri che hanno scelto di morire per Cristo».

Nel febbraio 2006, vescovo da poco più di un anno, visse lo sgomento per la morte violenta di un suo giovane prete, don Andrea Santoro, ucciso nella sua chiesa di Trabzon, sempre in Turchia. In ben cinque omelie quasi anticipò misteriosamente la sua morte ugualmente violenta: «Chi ha pensato che uccidendo un sacerdote cancellava la presenza cristiana da questa terra, non sa che la forza del cristianesimo sono proprio i suoi martiri… Preghiamo per il suo giovane assassino, la forza del nostro perdono e della nostra preghiera lo aiuti a capire che l’amore è più forte della morte».

Al termine di quella serata, congedandoci, ci invitò a ritornare offrendoci l’ospitalità nella sua casa, la stessa nella quale quattro anni dopo il suo autista lo avrebbe selvaggiamente colpito a morte.

La seconda occasione fu quando monsignor Padovese accettò di venire a Milano, all’Università cattolica, per presentare il mio libro dedicato all’esperienza religiosa in tempi di fanatismo. Ritrovo oggi nel suo ampio intervento i temi che gli erano cari e che gli costarono la vita: il riconoscimento della libertà personale, i diritti delle minoranze religiose, il dialogo con il mondo islamico, la laicità dello Stato.

Rileggo con emozione la conclusione di quel suo discorso: «Mi piace osservare che tra quanto c’è di maggiormente comune agli uomini c’è la sofferenza… il “negativo condiviso” è insomma l’occasione per sostituire la selezione con la solidarietà, l’aggressività con la cooperazione, la guerra con la pace. Dall’empatia che capisce nasce la sim-patia o la com-passione che unisce. L’universalità di sofferenza che abbraccia tutti gli uomini diviene universalità di compassione che non conosce barriere culturali e religiose. In fondo, questa è la strada che Dio ha scelto in Cristo per essere prossimo a ogni uomo».

E queste parole mi hanno portato al terzo incontro con lui, accanto al suo corpo deposto presso il convento milanese dei Cappuccini in viale Piave a Milano. Le vesti pontificali nascondevano le numerose coltellate inferte al suo corpo, ma non la ferita al collo che quasi lo aveva decapitato. In Duomo ancora il cardinale Tettamanzi, con voce rotta dall’emozione, così lo salutò: «Chicco di grano, padre Luigi, lo è stato in quell’ultimo drammatico istante della sua vita, mentre era accanto a un fratello che considerava amico e figlio. Il suo corpo e il suo sangue sono davvero caduti sulla terra di Turchia e, pur nel dolore e nelle lacrime, ci appaiono per quello che sono davvero: non più segni di una vita strappata da violenza insensata e tragica, ma offerta viva di sé che padre Luigi ha vissuto in ogni giorno della sua missione di Vescovo, di amico della pace, di fratello di ogni uomo per amore di Cristo Signore».

 

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