Nella Solennità dell’Ordinazione di Sant’Ambrogio, nella Basilica a lui dedicata, l’Arcivescovo ha presieduto il Pontificale al quale hanno preso parte moltissimi fedeli
di Annamaria
Braccini
Lo scandalo dei fratelli che si fanno del male e della guerra che, dall’inizio dei tempi, insanguina l’umanità, ma che, non per questo, è un dramma meno doloroso.
E, invece, la responsabilità di offrire parole di speranza, di essere testimoni credibili dell’amore di Dio, donando la propria vita e facendosi cercatori di chi ha perso la strada di casa. Opera, questa, per la quale serve che ognuno dia un contributo, perché da soli, anche se si è un Vescovo, non si riesce a fare nulla.
L’omelia del Pontificale di Sant’Ambrogio che l’Arcivescovo di Milano presiede, nella Basilica intitolata al Santo Patrono gremita in ogni suo angolo, si fa richiamo, appello, dolorosa constatazione del presente, sguardo di speranza aperto sul futuro.
Nell’Eucaristia – concelebrata dall’abate della Basilica, monsignor Carlo Faccendini, dai membri del Consiglio Episcopale Milanese, del Capitolo metropolitano della Cattedrale e di Sant’Ambrogio, a cui partecipano una sessantina di seminaristi del Biennio Teologico -, tutto parla del Pastore che dà nome alla Chiesa di Milano. I Dodici Kyrie peculiari delle Solennità, appunto, ambrosiane, la Lettura agiografica sulla vita del Santo, la devozione dei fedeli che sostano davanti alle reliquie di Ambrogio, Gervaso e Protaso, ritornate nella Cripta dopo l’importante lavoro di ricognizione interdisciplinare condotto in questi ultimi mesi.
Dal capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, si avvia la riflessione del vescovo Mario.
«Vede venire il lupo. Vede l’insidia che mette paura. Vede quello che non vorrebbe vedere: una forza ostile che mette in pericolo, che turba una vita tranquilla. Vede che la mitezza docile, simboleggiata dall’agnello e dalla pecora, di un popolo che si riconosce con naturalezza e semplicità partecipe di un’unica vita, in cammino su un’unica strada, disponibile alla voce di un unico pastore, diventa una preda del lupo. Irrompe, nella vicenda umana, un’ostilità aggressiva, una bramosia di appropriazione che distrugge, prevarica, sconvolge la pace e la convivenza serena. L’immagine del lupo che rapisce e disperde le pecore è utilizzata da Gesù per leggere la storia religiosa del suo popolo».
Una storia che riguarda, nella Parola di Dio anzitutto Israele, ma anche l’intera umanità. «La convivenza pacifica, l’appartenenza all’unica fraternità è drammaticamente compromessa fin dall’inizio dei tempi, fin da quando la vocazione all’amore fraterno è stata contrastata dall’insofferenza e dalla gelosia: il rapporto fraterno è stato spezzato con violenza, l’uomo è diventato per l’uomo come un lupo e Caino ha alzato la mano contro suo fratello».
«Non è, quindi, una novità che l’umanità sia dispersa e rapita da forze ostili alla pace, ma che ogni generazione assista al ripetersi del dramma, non lo rende meno doloroso».
«La vicenda drammatica di popoli fratelli che si fanno la guerra, anche oggi in tante parti della terra, e persino la vicenda straziante di discepoli dell’unico Signore che hanno scavato nella storia solchi invalicabili, ferite che sembrano insanabili, sono vicende che continuano a essere dolorose e scandalose».
Eppure Dio «si ostina» a vedere l’umanità come una vocazione comune, quella «di diventare un corpo solo, di essere un solo gregge guidati da un solo pastore. Ma a quale prezzo?», si chiede l’Arcivescovo.
«L’intenzione di Dio di riunire tutti nella fraternità si attua con l’attrattiva dell’amore. Amati fino al dono della vita, fino al consegnarsi del Figlio nelle mani dei violenti, allo scherno degli sciocchi, al risentimento dei potenti che sentono minacciato il loro potere dalla chiamata all’umiltà che si fa servizio».
Il riferimento è al Santo che proprio il 7 dicembre del 374, veniva consacrato Vescovo. «Ambrogio si è reso docile al comando del Signore ed è stata immagine viva del buon pastore: ha dato la vita perché la Chiesa fosse unita, segno della vocazione universale a quella vita che rende fratelli. Ha consumato le sue fatiche, le sue sostanze, ha impegnato la sua intelligenza, per liberare la Chiesa dalla dispersione, dalla divisione, dalla rassegnazione, dall’arrendersi alla conflittualità».
E, dunque, quale è il nostro compito?, continua l’Arcivescovo.
«Mi sembra che il Signore e che Ambrogio ci suggeriscano così: “Cerco uomini e donne che continuino la missione di radunare il popolo disperso, che avvertano lo strazio di questa umanità divisa, che sentano il dramma di tanti abbandoni, di tanti che si disperdono e che, inseguendo gli idoli, dimenticano la fonte della vita e i luoghi della fraternità. Uomini e donne che sentano come una ferita personale le divisioni che ci separano, l’incapacità di comunicare che ci rende condannati alla solitudine».
Sono questi uomini e donne che hanno la stessa missione di Gesù: «Conoscere le pecore, le persone che stanno intorno, non per quello che appaiono, non per quello che hanno fatto o detto, ma per come le guarda il Padre; conosciute non con i titoli accademici, non in base a un’etichetta, ma come persona che il Padre chiama perché torni a casa».
Da qui, il compito: «Gli uomini e donne che cercano di trovare un rimedio alla dispersione, devono avere qualche cosa da dire, pronunciare una parola che accenda il fuoco, che possa essere ascoltata, che offra speranza, che convinca a conversione, che convinca ciascuno a tornare a casa».
Gente, insomma, capace di donare la vita per amore. «Il lupo che rapisce e disperde le pecore può essere contrastato solo dal Buon pastore e da quelli che ne continuano la missione».
Coma appunto è il Pastore di una grande Diocesi come Milano: «Sento tutta la sproporzione di fronte all’impresa che mi è stata consegnata. Io da solo, vescovo di Milano, successore di Ambrogio, non riuscirò a ricondurre il gregge disperso; non è possibile compiere niente di ciò che il Signore mi ha comandato se ciascuno di voi non si fa avanti per fare della propria vita un dono».
A conclusione della Celebrazione, tutti i concelebranti e i seminaristi scendono, come tradizione, nella Cripta, per venerare le reliquie santambrosiane, pregando con le famose parole del Santo tratte dal suo “De Virginibus”.
Infine, nell’atrio cosiddetto di Ansperto, una visita breve, ma molto partecipata, alla mostra dedicata a papa Francesco, parte di una rassegna più ampia realizzata per la XXXIX Edizione del Meeting di Rimini. Una serie di pannelli fotografici ed esplicativi – presentati, per l’occasione, dalla Basilica di Sant’Ambrogio e dall’Associazione Milano per Giovani Paolo II – che, con il titolo “Gesti e parole. Jorge Mario Bergoglio, una presenza originale”, sarà visibile fino al 16 dicembre.