Il Cancelliere arcivescovile monsignor Marino Mosconi ha vissuto l'esperienza della malattia, fino alla terapia intensiva e alla successiva riabilitazione: «Mentre ero sedato avvertivo la presenza vicina di Dio, che mi dava pace e serenità. Sono grato a chi mi ha curato e a chi ha pregato per me»
di monsignor Marino
MOSCONI
Cancelliere arcivescovile
Come tutti i milanesi, prima ancora di imparare a camminare ho imparato a correre. Diventato sacerdote ho trasfuso questa indole nella nota dedizione dei preti ambrosiani al loro ministero, che nel mio caso concerne tre realtà: quella del servizio all’Arcivescovo, come Cancelliere; quella del servizio alla ricerca teologica, come professore di diritto canonico; quella del servizio pastorale nella parrocchia di Gesù Buon Pastore e San Matteo.
Poi, un giorno, da una febbre persistente al peggioramento dei sintomi, dalla chiamata del 118 da parte del medico curante fino al ricovero al Policlinico, la rianimazione, la terapia intensiva, la riabilitazione e infine il ritorno a casa in isolamento. Di ospedali me ne intendo – ho già avuto due interventi chirurgici di un certo rilievo -, ma mai si era abbattuta su di me una prova tanto sconvolgente. Nel frattempo anche la mia città era cambiata: l’avevo lasciata orgogliosa del suo dinamismo e la ritrovo una città fantasma, incerta sul suo futuro.
Riprendendo l’immagine evangelica proposta dal Papa, è come se una tempesta improvvisa, quella del Covid-19, si fosse abbattuta su di noi, sconvolgendo le nostre vite. Quando si è nella tempesta non si ha tempo per elaborare grandi pensieri: in fondo si cerca una cosa sola, dove aggrapparsi per non soccombere. Nella mia tempesta questa domanda ha avuto una risposta chiara: potevo confidare in Gesù e nella sua misericordia, e in diverse forme questa consapevolezza mi ha sostenuto nelle diverse fasi del ricovero.
Durante la rianimazione, mentre ero sedato, ho vissuto una sorta di sogno (che ricordo fin nei dettagli ancora oggi e che per molti giorni ho pensato essere reale), in cui vivevo quanto realmente stava accadendo (subivo intubazioni opprimenti mentre intorno a me le persone morivano), ma il tutto era avvolto dal senso della presenza di Dio, che conferiva a ogni cosa una dimensione di pace e di serenità. Ridestato, nei diversi reparti, questa pace mi ha accompagnato sempre, mentre sperimentavo il conforto di avere per alcuni giorni una suora come compagna di stanza e godevo della vicinanza premurosa (ovviamente non fisica, nessuno può accedere ai reparti Covid) del Rettore vicario della parrocchia del Policlinico.
Non posso attribuire a me stesso la capacità di questo sereno affidamento alla divina misericordia. Perfino gli Apostoli nell’ora della prova si sono lamentati – «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4, 38) – e la mia fede non è certo migliore della loro. Attribuisco piuttosto questo dono alle tante persone che hanno pregato per me, dalla mia parrocchia di origine di Palazzolo Milanese, dove si venera la Vergine Addolorata, passando attraverso i fili delle tanti relazioni che ho costruito in questi anni nei diversi ambiti di ministero, fino ai giovani scout del Milano97. I protagonisti di questa preghiera si sono rivelati solo verso la fine del ricovero, quando erano certi di non disturbare, ma io da subito ho sentito il beneficio della loro vicinanza.
Sono consapevole di avere un debito di gratitudine verso il personale sanitario che con competenza, dedizione e umana sensibilità mi ha curato. Come giustamente osservava un’infermiera mentre la tv accesa nella mia stanza parlava di loro come eroi, è davvero singolare che solo in queste circostanze ci si rende conto del bene che essi svolgono da anni, giorno dopo giorno, al servizio dei più deboli, senza nulla pretendere per sé. Anche questo è un segno della bontà di Dio che, nonostante le nostre freddezze, mantiene vivo nel cuore il sentimento della compassione e il desiderio di aiutare chi versa in condizione di bisogno.
La vita è cambiata molto in poco tempo, ora i ritmi sono rallentati e accompagnati dalla fatica, ma grande è il desiderio di riprendere, come parzialmente sto già facendo. In questa domenica in Albis depositis, come la definisce il Rito ambrosiano, oso anzi sperare che tutta la famiglia della Chiesa ambrosiana possa maturare il desiderio di un nuovo inizio, che non abbia il sapore di un semplice ritorno al passato, ma che tragga insegnamento dalla tempesta di questi giorni per costruire qualcosa di nuovo, che abbia il gusto e la forza della novità della Pasqua.