Il rapporto tra Giovanni XXIII e i grandi autori italiani come Dante e Manzoni al centro di un seminario in Cattolica con l'intervento dell'Arcivescovo
di Annamaria
BRACCINI
Un’occasione preziosa per riflettere non solo sulla figura di un grande appassionato della lettura e della letteratura – quale fu papa Roncalli -, ma anche per annodare il filo che lega inscindibilmente fede e letteratura. Questa è stata la mattinata di studio presso l’Aula Pio XI dell’Università Cattolica, intitolata «In dialogo con Dante e Manzoni. Giovanni XXIII e i grandi autori italiani» e promossa dal Dipartimento di Storia, Archeologia e Storia dell’ateneo e dalla Fondazione “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo. Dopo i saluti istituzionali e un primo intervento di Agostino Giovagnoli – moderatore del convegno, svoltosi con le comunicazioni di diversi docenti italianisti e storici -, a riflettere su tale rapporto è stato l’Arcivescovo, che ha preso spunto da alcune citazioni letterarie.
L’intervento dell’Arcivescovo
A partire da brani di un racconto tratto dal volume Lo specchio nello specchio di Michael Ende, con l’immagine di una carovana impegnata in un viaggio infinito, l’Arcivescovo spiega: «La gente percorre la terra smarrita e inquieta in un universo che ha smarrito il suo senso, frantumatosi in un dissenso, e scrive sulla terra percorsi che sembrano, infatti, insensati. Eppure vanno, camminano guidati dalla parola e scrivono, con il loro andare, la parola che cercano. Così si può intendere la letteratura, come un’opera di fede. Se la parola tiene unite tutte le cose e salva il mondo dal frantumarsi, la letteratura è una pratica della fede».
Poi ancora un riferimento ad Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria di Gesualdo Bufalino, che, interpretato dall’Arcivescovo, diviene la metafora di una «letteratura che si può vivere come una sorta di invocazione, di terapia per l’insopportabile e irrinunciabile condizione del vivere. Forse – sottolinea ancora monsignor Delpini -, lo scrittore infelice, che si mette a scrivere un libro felice, vi cerca una evasione, un sollievo, un palliativo e l’uomo trova l’irrompere del nero presente – come scrive appunto Bufalino – e insieme una specie di ragione per amare la vita. È come un trovare la fede».
Infine, la lunga citazione di uno stralcio de Il quinto Evangelio di Mario Pomilio, proprio per parlare della letteratura e della fede «non come di due ipostasi da collegare cercando qualche possibile ipotesi» e della letteratura stessa «come di un affidarsi alla ricerca per tentare di scrivere l’impossibile libro felice». «Se i Vangeli – per usare le parole di Pomilio – non sono rimasti un libro come tanti, finito e concluso nei confini del suo tempo, ciò è accaduto anche perché il modo in cui ci è stato trasmesso il messaggio di Cristo ci ha predisposti verso l’apocrifo, o altrimenti all’attesa d’un supplemento di rivelazione, maldestro quanto si vuole, di integrare noi la sua Parola».
Da qui la terza e conclusiva suggestione: «Si può immaginare la storia della letteratura come la stesura del quinto Evangelio, di quel supplemento di rivelazione che non aggiunge nuove dottrine, ma che predispone la vita umana ad accogliere la vita di Dio, interrogando continuamente i drammi e le gioie, gli amori e le vicende storiche, i viaggi nell’anima e i viaggi tra i popoli. La letteratura è un modo per ritrovare i semi del Verbo e anche la letteratura più ignara dei Vangeli può essere, così, un modo per esprimere il tutto: un modo di essere uomini, di essere vivi che rende simili e disponibili ad accogliere la vita di Dio».
Dunque, in questa logica si può leggere «anche l’opera di Giovanni XXIII, che ha avuto simpatia per il mondo, che ha cercato più ciò che unisce che ciò che divide e che ha intuito la necessità di un aggiornamento della Chiesa. Opera che non è stata la riproposizione di un testo da insegnare, piuttosto il mostrare come l’unico Vangelo diventa, per ogni generazione, la responsabilità di scrivere il quinto evangelio».
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