Il Coordinatore diocesano di Rinnovamento nello Spirito Santo sul Discorso alla Città e sullo stile invocato dall’Arcivescovo per il servizio al bene comune

di Alessandro Mori
Coordinatore diocesano di Rinnovamento nello Spirito Santo

Alessandro Mori
Alessandro Mori

Favo di miele sono le parole gentili, dolce per il palato e medicina per le ossa” (Pr 16,24). Il tradizionale Discorso alla città di quest’anno è occasione per ricordare che siamo capaci di gentilezza; una via praticabile e da praticare «in questo nostro tempo confuso, di frenetica ripresa e profonda incertezza».

L’Arcivescovo cita il passaggio di uno scritto del nostro patrono Ambrogio come avvio alla riflessione comune e comunitaria. I leader presenti, laici e religiosi, sono stati così sollecitati a sentirsi parte dell’intero, facendosi ascolto dei bisogni e responsabilità reclamata. Il complemento – con gentilezza – implica il modo, lo “stile” per il servizio al bene comune. Esso è un richiamo anzitutto all’appartenenza e alla fraternità.

Nelle parole dell’Arcivescovo vediamo, in filigrana, il Magistero lungimirante e profetico del Pontefice: «La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici» (FT 224).

Appartenere alla città

Per Milano, terra di mezzo d’Europa e Chiesa dalle genti, l’invito alla virtù della gentilezza risuona altisonante: «che solitudine in questa affollata città rombante!» riconoscerà con malinconia Clemente Rebora. Le molteplici differenze che nella città trovano il loro habitat rischiano di differenziarci dividendoci, non facendoci più riconoscere familiari.

Cosa significa appartenere alla città? Occorre ricordare che «non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo» (GE 6). Dal nostro appartenere a questa terra proviene il nostro essere – ambrosiani -; eredi di una storia come tesoro: «fa parte della nostra identità ambrosiana il trovarsi a proprio agio nella storia». L’Arcivescovo, nel richiamarci allo stile della gentilezza praticato tout court, invita implicitamente a non amputare le radici; il morbo dell’isolamento e dell’appartarsi isola dal reale.

Avvertiamo il bisogno di donne e uomini – gentleman– che avvertano la loro natura in comune con altri; di chi sia in grado di ri-comprendere la città multiforme, sapendola ri-leggere nella sua sintesi – senza esclusione alcuna – per poter trovare un nuovo linguaggio spirituale. E spirituale autentico – scevro da denominazioni – cioè capace di umano, abilitatore di gentiluomini.

Terribili suonano i versi di Salvatore Quasimodo scritti durante l’agosto del 1943 dopo i bombardamenti sulla città: «Invano cerchi tra la polvere,/povera mano, la città è morta». Il poeta si rivolge ai sopravvissuti con il tono funereo di chi non vede speranza. Eppure la nostra storia racconta della praticità e della laboriosità dei milanesi che, insieme, cooperarono per ricostruire la città. Milano non morì! Un altro poeta, un decennio prima, scriveva quasi un oracolo cittadino: “Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio villeggiatura” (Umberto Saba). La doppia sineddoche utilizzata dice la sintesi del tutto, la comprensione della pluri-forma del reale abitabile.

Nobiltà d’animo

Monsignor Delpini delinea questa gentilezza – come «quell’espressione della nobiltà d’animo» – attraverso tre virtù: la lungimiranza, la fierezza e la resistenza. Sono virtù frutto della riflessione riguardo al tempo: solamente con lo sguardo responsabile rivolto al domani, facendo memoria di chi siamo, sarà possibile resistere ed essere “artigiani del bene comune” oggi.

Riecheggia, nell’antica basilica ambrosiana, l’espressione “nuovo umanesimo” che da tempo aleggia nella Chiesa e che è da più parti invocata come cura al tempo presente. Potrà essere nuovo, a me pare, nella misura in cui vi sarà nuovamente spazio allo spirituale inteso come capacità di apertura dell’uomo ad Altro.

Armida Barelli, nostra concittadina presto beata e figura chiave del primo Novecento, è testimone di questa gentilezza artigiana: «Impossibile? Allora si farà!».

 

 

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