Celebrazione vespertina, presieduta dall’Arcivescovo in Duomo, nella Cena del Signore con il Rito della Lavanda dei piedi compiuto su 12 giovani di nazionalità diverse a sottolineare il cammino sinodale “Chiesa dalle Genti”
di Annamaria
Braccini
La Cattedrale immersa nella penombra, nella quale dodici tra uomini e donne, che porgono il piede per il Rito della Lavanda, ricordano il gesto di Gesù sugli Apostoli e, poi, tra le navate, ormai rischiarate dalla luce, la Celebrazione eucaristica in Coena Domini. Tutto parla, all’inizio del Triduo Pasquale, del sacrificio del Signore con quel donarsi gratuito di cui è simbolo il Rito iniziale della Lavanda, compiuta dall’Arcivescovo su dodici giovani di origine straniera – Cina, Egitto, Ucraina, Polonia, Romania, Filippine, Sri Lanka, El Salvador – a sottolineare il cammino che stiamo vivendo, come Diocesi, nel Sinodo minore “Chiesa dalle Genti”.Le letture nella Messa vespertina del Giovedì santo, peculiari del Rito ambrosiano, guidano la riflessione di monsignor Delpini.«Perché il proposito si rivela impotente? Perché le buone intenzioni si rivelano inefficaci? Perché il desiderio buono è frustrato? Nella Celebrazione della Cena del Signore, si indovina un velo di tristezza e un senso di sconfitta», dice, in avvio della sua omelia, il Vescovo.
Come nei giorni della Passione, i «discepoli erano brava gente, volonterosa e fiera di far parte del gruppo di Gesù, eppure non riuscirono a vegliare un’ora sola con il Signore»; come i cristiani di Corinto che vengono duramente rimproverati da Paolo nella Lettura, così, oggi, anche nei credenti del Terzo millennio, si sente spesso il peso di cammini interrotti, di infedeltà evidenti e dolorose.
«Noi che siamo forse brava gente, volonterosa e generosa, che abbiamo cominciato la Quaresima con buoni propositi e ottime intenzioni, dobbiamo riconoscere che registriamo fallimenti, constatiamo l’inconcludenza dei nostri cammini, la mediocrità delle nostre vite e la frustrazione dei nostri desideri».
In una parola, «l’incoerenza tra il Mistero che celebriamo e la vita che conduciamo. Ci raduniamo con il desiderio di celebrare il principio e la grazi,a che ci fa un cuore solo e un’anima sola e, finita la Celebrazione, ci disperdiamo in gruppuscoli litigiosi, in caute indifferenze, in solitudini inaccessibili. Anche in noi, che pratichiamo l’obbedienza continuando quella logica del corpo dato e del sangue versato, cioè il servizio vicendevole fino al sacrificio, prevale in tante occasioni il risentimento, la pretesa di essere serviti, un atteggiamento presuntuoso che vuole imporsi sugli altri e avere l’ultima parola».
E, allora che fare?
Tra la strada di chi si difende dando la colpa agli altri; di coloro che, ritenendo il fallimento momentaneo, proseguono con nuovi sforzi e, magari, generosità votata a ulteriori sbagli e di chi dispera, «ritenendo i disastri irreparabili», esiste una via «più promettente per cambiare vita».
Quella di Pietro, che «riprende il cammino alla sequela, dopo aver rinnegato Gesù, ricominciando dalle lacrime».
«Ricominciate dal riconoscere la vostra impotenza e dal piangerne. Ricominciate dal pentimento che trafigge il cuore. Ricominciate dall’umiltà di riconoscere che ogni presunzione è una forma di ottusità, ogni sforzo è destinato al fallimento se viene costruito sulle proprie risorse e ogni tentativo è inadeguato all’impresa di essere discepoli. Ricominciate dalle lacrime, da quel modo di contemplare il dolore di Gesù, e il rifiuto che lo condanna a morte, come un dolore vostro, una sofferenza personale e non come una storia commovente. Ricominciate dalle lacrime, da quel lasciarsi guardare dallo sguardo di Gesù, da quel ricordare la sua parola, da quel fare memoria del suo consegnarsi che non si accontenta di farci pensare, non si limita a chiederci un impegno, ma che induce a quel commosso, affettuoso, intenso, inerme pregare. Lasciate che il Signore vi guardi, guardate con Lui i vostri fallimenti che umiliano, il senso di incompiuto che lascia esauriti. Considerate che queste povertà e mediocrità possono essere lavate non da uno sforzo che si rinnova, non da una autodifesa che si ostina, non dalla disperazione che pone fine a tutta una storia, ma dal riconoscere quanto è promettente essre guardati da Cristo che ci ama».
Infine, a conclusione della Celebrazione, l’Eucaristia viene portata, in processione – dall’Arcivescovo preceduto dai concelebranti e seguito dai fedeli – all’altare della Riposizione, dove resterà fino alla Veglia Pasquale.