La Messa presieduta dell'Arcivescovo al Cimitero Monumentale alla vigilia della giornata dedicata alla commemorazione dei defunti: «Di fronte a troppe morti ingiuste la croce di Gesù insegna la speranza»
di Annamaria
BRACCINI
«Siamo qui per dire che la vita non finisce nella morte, ma nell’abbraccio di Dio». Presso il Famedio, davanti al monumento funebre di Alessandro Manzoni, tra le sepolture, le effigi marmoree e i tanti nomi illustri iscritti nel Pantheon di Milano per aver reso grande la città in ogni tempo, l’Arcivescovo presiede la Messa concelebrata da alcuni frati Minori Francescani del vicino convento di Sant’Antonio, che svolgono il loro servizio pastorale quotidiano nel Cimitero Monumentale. Tanti i fedeli che partecipano all’Eucaristia tra cui, in prima fila, la vicesindaco Anna Scavuzzo (con la fascia tricolore, in rappresentanza del primo cittadino Beppe Sala) e la direttrice del cimitero, Giovanna Colace. Un momento tradizionale e istituzionale «che dice che il Comune e la Chiesa si trovano insieme per un culto che unisce tutti i cittadini di Milano», sottolinea l’Arcivescovo.
Dopo il saluto di benvenuto di fra’ Paolo Dozio, superiore del Convento – che definisce la presenza dell’Arcivescovo «segno di una comunità a cui ci gloriamo di appartenere e che cammina alla ricerca del volto del Signore» – si avvia la celebrazione che, nel pomeriggio della Solennità di Ognissanti, già proietta verso il giorno della commemorazione dei Defunti. E infatti l’intera omelia si annoda attorno alla riflessione sulla vita e sulla morte.
La morte sbagliata
Quella morte definita subito «la nera signora dell’immaginario antico, che gira per la terra a mietere le sue vittime e che, forse nel nostro tempo, si lamenta di essere troppo disoccupata, perché vorrebbe passare quando il tempo è trascorso, quando uomini e donne sono sazi di giorni e, invece, c’è troppo spesso qualcuno che arriva prima e le ruba il suo macabro mestiere».
Il pensiero non può che andare ai tanti fatti di cronaca che, anche nelle ultime ore, parlano della morte assurda di decine e decine di giovani o di gente che era al suo posto di lavoro: «C’è troppa morte sbagliata: gli uomini si impegnano troppo per seminare la morte in guerra, la morte per le violenze che si consumano in casa o, per pazzia, nei luoghi della vita quotidiana. La morte stupida di chi si mette nei pericoli e quella assurda di chi si accalca per una festa». Ma anche la morte che si cerca volontariamente, «perché si considera insopportabile la vita, magari giovane, derubata delle promesse, in cui è stata proibita la speranza. C’è troppa morte che spegne la vita prima che venga alla luce, con il dramma tremendo dell’aborto».
Dove va l’umanità?
Inevitabile e dolorosissima la domanda. «Che sta succedendo all’umanità del nostro tempo? Ha forse stretto alleanza con le forze nemiche della vita? Ha forse perso la voglia di vivere e di desiderare che continui la vita buona? Forse una specie di inedita follia si diffonde come una epidemia, come una incontenibile violenza, come una stanchezza estenuante. Quale futuro desiderate per l’umanità, voi che siete vivi, che abitate la terra?», sottolinea l’Arcivescovo.
Un interrogativo – questo – al quale non possono essere estranei i cristiani, anche se talvolta hanno il dubbio di essere un «anacronismo». Insomma – detto in altri termini, per usare quelli dell’Arcivescovo – «abbiamo ancora parole da dire che siano comprensibili? Opere di bene che non siano inutili? Avremmo molti argomenti per arginare il dilagare della follia che semina la morte sbagliata, ma chi ascolta? Avremmo molti testimoni per trarre dalla storia considerazioni sapienti e una luce amica per andare avanti, ma chi è disposto a imparare dalla storia? Avremmo molti buoni sentimenti da condividere nella forma della prossimità, della consolazione, della comprensione per chi è troppo ferito, ma a che servono i buoni sentimenti se dilaga la follia?».
Eppure «noi celebriamo l’Eucaristia, cioè la morte sbagliata di Gesù, che subisce la morte violenta e ingiusta rendendoci partecipi della rivelazione e della sua vittoria, per arrivare alla verità secondo la volontà del Padre che tutti siano salvati». E questa non è un’opinione, ma un fatto, «non una parola di consolazione fantastica come un “lieto fine”, ma una partecipazione che rende la vita meritevole di essere vissuta e donata: una vita che la morte non può vincere».
Grazia, responsabilità e missione
Per questo i cristiani si fanno annunciatori «della sapienza della croce che può arginare e guarire la follia che preferisce la morte alla vita, che impegna tante risorse per far morire invece che per aiutare a vivere». Discepoli che essendo, così, «alleati del Dio della vita, continuano a cercare di renderla buona per sé e per gli altri, alleandosi anche con tutti gli uomini e le donne di ogni religione e cultura per dire che vivere è una grazia, una responsabilità, una missione. Siamo qui non per celebrare la desolazione di un destino che condanna a morte, ma per accogliere il mistero che ci dà la vita, non per compiere un dovuto tributo di omaggio, ma perché vogliamo trarre spunto dal passato e da chi ci ha preceduto per imparare a custodire la vita».
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