Presso la Fondazione Ambrosianeum si è tenuto il Convegno promosso dalla Sezione milenese dei Medici Cattolici Italiani. L’assise è stata aperta dalla Lectio Magistralis dell’Arcivescovo

di Annamaria BRACCINI

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Come coniugare le tecnica e la tecnologia, sempre più pervasive nella medicina, con l’umano della cura? Quale formazione è necessaria, in scenari in mutamento continuo, per i medici di oggi? Come non perdere di vista il fondamentale rispetto dovuto alla persona, specie nel momento delicatissimo della malattia e negli ultimi tempi della vita?
Sono stati temi complessi – analizzati più con punti interrogativi che con risposte certe – quelli che ha affrontato, in un’intensa mattinata di studi svoltasi presso la Fondazione culturale Ambrosianeum, il convegno promosso dalla Sezione milanese dell’Associazione dei Medici Cattolici Italiani, intitolata a Santa Gianna Beretta Molla.
Aperta dal saluto introduttivo di Alberto Cozzi, presidente di AMCI Milano e moderata da Alberto Del Bo, docente presso l’Università Statale, l’assise ha visto la Lectio Magistralis affidata all’Arcivescovo, con il titolo del Convegno stesso: “Quale formazione tecnica e umana per il medico del terzo millennio?”.

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«Il timore è che l’aspetto umano non trovi più spazio per l’avanzare delle tecnologie. I medici cattolici credono in un cammino, in sinergia con le Istituzioni, da realizzare attraverso un’alleanza a 360°, anche al di là dell’appartenenza religiosa. Oggi è solo un inizio, ma vogliamo andare avanti su questa strada», spiega Cozzi per indicare le ragioni di un ritrovarsi tra medici, operatori sanitari, docenti che ha messo a fuoco diversi aspetti della clinica odierna.

La divaricazione tra il tecnico e l’umano

Come, appunto, la divaricazione «tra il tecnico e l’umano» che, per il vescovo Mario, caratterizza l’epoca moderna.
«Tale divaricazione è una scelta e anche un’inerzia. La memoria che molti aspetti della ricerca scientifica e della applicazione tecnologica si siano sviluppati in ambito religioso è andata perduta e forse persino è stata volutamente censurata. La medicina si è sviluppata nell’antichità in ambito religioso, mentre in epoca moderna ha ritenuto la religione e la sacralità della vita una sorta di impedimento alla libertà della ricerca sul corpo umano. In conclusione si può dire che, attualmente, “il tecnico” e “l’umano” si caratterizzano come alternativi o quanto meno paralleli», chiarisce subito l’Arcivescovo.
D’altra parte, rimane evidente che la divaricazione indicata abbia basi radicate e molto profonde. «La tecnica funziona sul principio della generalizzazione, per utilizzare lo stesso processo su corpi e malati diversi, mentre l’umano funziona sul principio della personalizzazione; la tecnica mette a disposizione un potere – per esempio, di far nascere o di far morire -, mentre l’umano si confronta con la responsabilità di scegliere tra il bene e il male; la tecnica affronta la questione del “come” e la sua risposta è la procedura per “far funzionare” il corpo umano considerato nella sua dimensione oggettuale e nella concezione di un “meccanismo”, laddove l’umano affronta la questione del “perché”».


Poi, la questione-cardine. «La tecnica è esposta alla seduzione di orientare la medicina al business, l’umano orienta la medicina al servizio. Per questo l’umano, restando estraneo alla tecnica, interviene nella pratica medica come un aspetto non necessario e non incidente. Infatti, non incide molto il carattere e il tratto relazionale del medico o la presenza del cappellano, per quanto sia desiderata e anche strutturalmente inserita nel percorso ospedaliero», la conclusione di monsignor Delpini che, di fronte a tutto questo, definisce fondamentale «il recupero della spiritualità».

La spiritualità nella cura

«La divaricazione sostanzialmente praticata nella medicina moderna ha spesso messo in evidenza un disagio. Il medico ridotto a tecnico e il malato ridotto a un corpo da curare hanno provocato una situazione di stress nel medico e di risentimento del malato. La fatica della prestazione professionale trova sollievo nella spiritualità e, nello stesso tempo, il disagio del malato trova un sollievo nella “assistenza spirituale”, cioè nella prossimità e assistenza di persone – volontari, operatori pastorali – che diventano confidenti rassicuranti e amici affettuosi».
Una spiritualità, questa, che non necessariamente attinge a una pratica religiosa fondata sulla fede, ma piuttosto si rivela utile per una condizione soggettiva più serena.
Solo così si può, infatti, avviare un cammino di relazione spirituale che non sia solo considerata (come spesso accade) «un anestetico», ma che si qualifichi come «una promozione complessiva dell’umanesimo della cura».
«La persuasione diffusa, e certamente promossa dall’Amci, che la medicina sia un prendersi cura della persona nella sua realtà concreta, complessa, composita e socialmente inserita, suggerisce di non immaginare la malattia come un guasto spiacevole di un meccanismo che deve essere riparato. La malattia è piuttosto un evento antropologico che richiede un farsi carico della persona nella sua realtà concreta e irripetibile».

Padre Carlo Casalone, accademico della Pontificia Accademia per la Vita

Da qui alcuni suggerimenti del vescovo Mario per una formazione del personale sanitario che integri il tecnico e l’umano: «l’aggiunta di corsi di bioetica, di psicologia, di antropologia al curriculum accademico di formazione dei clinici; la rielaborazione dei Corsi perché sia messa a tema la rilevanza della dimensione spirituale nella motivazione terapeutica, nella motivazione del personale sanitario e del malato per guarire, come evidenziato da diversi studi che hanno accertato come la terapia abbia un’efficacia che si incrementa quando vi è una motivazione, un’interrogazione sul senso della vita, una speranza; vivere il rapporto medico-malato come provocazione per un coinvolgimento personale del personale sanitario nel percorso terapeutico».
Insomma, quella che si definisce una medicina narrativa che non si limita all’accertamento di alcuni dati, ma che va verso il rapporto personale, illuminando la tecnica. Infine, l’integrazione dell’équipe terapeutica con esperti di scienze umane.

Le basi della cura come relazione e la sfida della tecnologia

Elio Franzini, Rettore Università statale

Pienamente concorde con l’Arcivescovo, il rettore dell’Università degli Studi di Milano, Elio Franzini che delinea la questione dal punto di vista filosofico.
«Parlare di filosofia della cura non è semplice, perché il termine “cura” ha molti significati. Il problema della cura non riguarda solo la realtà del medico, ma un’intera dimensione esistenziale: non è mai una relazione solo duale, avendo a che fare con le Istituzioni, la società nel suo complesso e l’uomo nella sua integralità. Il vero problema filosofico della cura oggi è immaginare una cura di base per tutti».
Come Franzini anche il padre gesuita Carlo Casalone, accademico della Pontificia Accademia per la Vita, cita Martin Heidegger e la sua famosa espressione “essere nella cura”.

«Oggi l’atto medico si va frantumando per la moltiplicazione degli specialisti e la frammentazione del corpo. Infatti negli ospedali, che sono divisi rigidamente in reparti e apparati, si vede una dispersione dell’atto medico che è più centrato sulla disfunzione in quanto tale che non sulla malattia vissuta. La formazione medica accentua questa “cosificazione” del corpo come insieme di apparati da riparare e questo pone problemi per una medicina umanocentrica».
Così come fa il moderno trend «del rapporto non più totalmente asimmetrico tra medico e paziente che si fa progressivamente protagonista della propria cura, tendendo a mettere a lato il medico». Senza considerare la crescita delle scoperte dell’intelligenza artificiale «che possono offrire una medicina personalizzata, perché gli algoritmi sono in grado di produrre una ricerca della cura specifica per ciascuno inimmaginabile a livello umano».
Dunque, per Casalone, cruciale rimane il «confronto con il limite dell’impresa scientifica e tecnologica e il confronto ultimo con la morte».
«Forse possiamo imparare dalle cure palliative che hanno molto a che fare con una terapia umanizzata e spirituale. La domanda fondamentale, non è solo aggiungere altre competenze, pur necessarie, ma come sentirsi chiamati, come pazienti e curanti, a considerare la propria vita in un orizzonte complessivo, favorendo un’umanità integrale, nella consapevolezza che noi non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché siamo mortali».
Una nuova frontiera: “la medicina della violenza”
«La violenza va trattata come una malattia», dice, da parte sua, Cristina Cattaneo, direttore del Laboratorio Labanof della “Statale” e notissima anatomopatologa forense. «Sono convinta – scandisce – che la medicina sia uno strumento straordinario per combattere la violenza. Quindi, i medici ne devono conoscere le diverse forme che causano morti e feriti: basti pensare che, in Europa, il 6% delle morti e il 10% delle disabilità sono dovute alla violenza. Questo ovviamente riguarda la medicina. Tuttavia, da noi, finora, non esiste una medicina sul territorio che sappia intercettare persone vittime di violenza o di maltrattamenti, con l’ascolto e approfondimenti diagnostici tempestivi (che costano), come si fa, per esempio, quando al pronto soccorso arriva un infartuato. Su questo vogliamo lavorare».

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