Sabato 22 gennaio, in occasione della beatificazione di Cosme Spessotto, Rutilio Grande, Nelson Rutilio Lemus e Manuel Solórzano, Messa in Santo Stefano Maggiore a Milano presieduta da monsignor Martinelli

di Alberto Vitali
Responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale dei migranti

Martiri salvadoregni
I quattro martiri

Sabato 22 gennaio la Comunità latino-americana di Milano celebrerà una solenne eucaristia alle 18 nella parrocchia dei migranti di Santo Stefano Maggiore, in occasione della beatificazione di quattro martiri salvadoregni che si terrà quasi in contemporanea nel Paese centro-americano. A presiedere la cerimonia monsignor Paolo Martinelli, vescovo ausiliare e francescano, come uno dei martiri: padre Cosme Spessotto, di origini italiane.

Spessotto, dal Veneto a El Salvador

Nato a Mansuè (Treviso) il 28 gennaio 1923 e ordinato sacerdote a Venezia il 28 giugno 1948, due anni dopo partì per El Salvador, dove gli fu affidata la parrocchia di San Juan Nonualco, che resse fino a quando venne ucciso, il 14 giugno 1980; nemmeno tre mesi dopo il martirio dell’arcivescovo San Oscar Arnulfo Romero.

A differenza di questi e del padre Rutilio Grande, che salirà con lui alla gloria degli altari insieme al giovane Nelson Rutilio Lemus e all’anziano Manuel Solórzano – uccisi nella stessa imboscata la sera del 12 marzo 1977 -, padre Spessotto non era, e non è, particolarmente conosciuto. La sua azione infatti fu interamente dedicata al servizio di quella porzione di popolo che abitava il territorio parrocchiale, promovendo iniziative finalizzate a sollevare i più dalla miseria e a garantire a tutti una solida formazione spirituale.

Quando dovette alzare la voce fu sempre e solo (complice la sua condizione di “straniero” in un Paese ormai in preda a derive nazionaliste) per questioni locali e contingenti; così che nessuno poté mai etichettarlo come «politicizzato e sovversivo», cosa che invece avveniva quotidianamente a molti suoi confratelli per il solo fatto di denunciare, alla luce del vangelo, l’ingiustizia imperante nel Paese. Paese che peraltro è l’unico al mondo ad avere nel nome della nazione e in quello della capitale un esplicito riferimento a Cristo “Salvatore” del mondo.

Grande, il confidente di Romero

Figura totalmente diversa è quella di padre Grande. Gesuita, formatore per anni nel Seminario interdiocesano di San Salvador quale padre spirituale, amato e rispettato, d’intere generazioni di preti salvadoregni, era conosciuto almeno in tutta la regione ecclesiastica centroamericana. In quell’ambiente, a partire dal 1967, era diventato l’amico più fidato di monsignor Romero: l’unico con cui il futuro Arcivescovo potesse confidarsi e sfogare nei momenti in cui (a causa della propria intransigenza e fatica ad accettare le novità e le sfide che la società e la sua stessa Chiesa gli stavano ponendo) era entrato in rotta di collisione con tutti. Di temperamento opposto, i due avevano però in comune le stesse origini popolari e quella indomita volontà di servire Dio e il popolo che li avrebbe portati a condividere il medesimo destino.

Quando poi, nell’estate del 1972, la Conferenza episcopale salvadoregna aveva tolto ai Gesuiti la gestione del Seminario (accusandoli d’essere troppo spinti nella linea della opzione per i poveri, fatta dalla II Conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellín), padre Grande aveva chiesto all’allora arcivescovo Chávez d’essere destinato a una popolosa parrocchia contadina. Fu così che arrivò ad Aguilares, cui apparteneva anche il municipio di El Paisnal, suo paese nativo. E sarà proprio sulla strada che attraversa i campi tra Aguilares e El Painsal, dove andava a celebrare la novena di San Giuseppe, che sarà ucciso insieme ai suoi due compagni, degni rappresentanti di quel popolo che tanto amava. Un mese prima, ad Apopa, in una omelia celeberrima aveva detto: «Temo che molto presto la Bibbia ed il Vangelo non potranno entrare dalle nostre frontiere. Ci lasceranno solo le copertine, perché tutte la pagine sono sovversive».

 

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