Il Vicario generale dell’Arcivescovo emerito ricorda tanti momenti vissuti insieme. Una testimonianza commossa e riconoscente
di Renato CORTI
Arcivescovo emerito di Novara
In questi giorni numerose persone mi hanno telefonato per farmi le condoglianze, come se il card. Martini fosse un mio familiare. La cosa mi ha un po’ sorpreso, ma l’ho gradita perché è la verità. Undici anni di vita comune in senso pieno – dalla preghiera alle questioni del governo pastorale, alla tavola, agli imprevisti e le urgenze talvolta gravi – costituiscono un’esperienza indelebile. Per me è stata sicuramente arricchente e spero anche per l’Arcivescovo gli è stata di qualche utilità.
Se risalgo più indietro, all’inizio degli anni Settanta l’incontro con il padre Martini è avvenuto durante un corso di Esercizi spirituali offerto ai preti giovani della Diocesi di Milano. La meditazione sul Vangelo di Marco mi lasciò stupito e mi toccò veramente il cuore. La sera dell’ultimo giorno, sotto un cielo stellato di agosto e guardando dall’Eremo san Salvatore la sottostante città di Erba con tutte le sue luci, ricevetti la grazia di avvertire acutamente che il Vangelo è veramente un vino forte e buono. Chissà quante persone, oltre a me, hanno fatto la medesima scoperta seguendo la sua lectio divina, tanto semplice quanto interrogante.
Venni consacrato Vescovo da lui nella veglia di Pentecoste 1981 nella basilica di sant’Ambrogio. Mi ero preparato meditando la “Regola pastorale” di san Gregorio Magno nella sede dei Padri di Rho, dove mi trovo ora. L’Arcivescovo Martini aveva ricavato il suo motto episcopale proprio da quel testo. Fece una scelta molto impegnativa: «Pro veritate adversa diligere», e cioè amare anche le avversità per amore della verità. Credo che abbia dovuto frequentemente richiamare quel proposito. Non sono infatti mancate, fino ad oggi, le avversità. Ciò non fa ombra al fatto che è stato anche molto amato. Dai giovani, per esempio. Ma anche dai sacerdoti, che lo riconoscevano come punto di riferimento e come ispirazione vivente. E poi è stato ascoltato e venerato da parte di tanta gente che egli incontrava soprattutto nelle Visita Pastorale. La sua figura aristocratica poteva un poco intimorire. La realtà era invece quella di un uomo semplice, umile, dedito senza risparmio al popolo che gli era stato affidato. Anche i cosiddetti lontani lo sentivano vicino. Praticava l’esortazione che viene rivolta a un Vescovo durante la liturgia di ordinazione: “Ama i poveri, gli indifesi e quanti hanno bisogno della tua accoglienza e del tuo aiuto. Ricordati anche di coloro che non appartengono ancora al gregge del Signore; anche di essi prenditi cura, perché anche per loro sei mandato”.
C’è qualche momento emblematico che ho vissuto come collaboratore dell’arcivescovo Martini. Penso, a un intenso e vigoroso convegno intitolato «Farsi prossimo» che si tenne ad Assago. Esso non finì quando si chiusero i lavori. Divenne provvidenzialmente duraturo affinché la Diocesi assumesse il volto della prossimità. Penso anche all’esperienza detta «Assemblea di Sichem», rivolta ai giovani. Ancora adesso mi capita di incontrare giovani di allora (anni ’80) che mi dicono: «Io sono uno dei giovani di Sichem». Potrei ricordare altri numerosi esempi di esperienze che ritengo molto valide. Ma quel che mi preme dire è che la partecipazione a tali incontri non si riduceva semplicemente a fare il proprio dovere o a dare un segnale di presenza, dopo di che tutto ritornava come prima. Si trattava infatti di un coinvolgimento appassionato e gioioso. Si respirava. Si maturavano delle scelte. Si diceva, da parte di giovani e adulti: «Questa è una strada buona per me». L’Arcivescovo con la sua presenza e la sua parola sembrava volere che si attuassero le affermazioni del Signore attraverso il profeta Gioele: «I vostri figli e le vostre figlie profeteranno; i vostri anziani avranno visioni».
In questi ultimi mesi ho avuto qualche rara occasione di incontrarlo. Constatavo che era veramente entrato in quella stagione nella quale si deve mendicare, facendo un’esperienza vera di povertà. Mi venivano alla mente le parole di Gesù dette a Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». L’ultima volta che l’ho visto, al termine del colloquio voleva salutarmi stando in piedi. Mi ha teso le braccia e l’ho aiutato ad alzarsi dalla poltrona. Nel suo intimo non c’era tristezza. Il silenzio non gli faceva paura. Diceva invece: «Mi vado chiedendo cosa voglia dirmi il Signore con queste difficoltà di salute che da un lato sto combattendo, dall’altro sto accettando. Sto ancora viaggiando e, come in ogni viaggio vedo e sperimento cose nuove. Sento che si tratta di una condizione che apre a orizzonti misteriosi. Mi sto esaminando sul Vangelo e mi incolpo sulle mie non autenticità alla Parola di Dio». Concludeva dicendo che «si sentiva chiamato a un continuo svuotamento di se stesso per fare spazio a Gesù».