L'alleanza tra le varie “agenzie” al centro del dialogo tra l'Arcivescovo, un papà, una mamma, un’insegnante, un educatore e una consacrata a conclusione della «Scuola per genitori» presso l’Auditorium don Bosco
di Annamaria
Braccini
Il senso di una sfida educativa che, pur nei mutamenti dei tempi, lega il passato di una grande tradizione, il presente della realtà che stiamo vivendo e il futuro che tutti speriamo migliore, soprattutto per le nuove generazioni, e che chiede quindi agli adulti «impegno, consapevolezza, responsabilità». Potrebbe essere questa l’immagine sintetica del dialogo – durato più di un’ora – tra l’Arcivescovo e sei “attori” dell’alleanza educativa, svoltosi presso l’Auditorium Don Bosco a conclusione della II edizione del ciclo «Scuola per genitori», organizzato dall’oratorio Sant’Agostino e dall’Istituto salesiano Sant’Ambrogio.
Presenti l’Ispettore della Provincia lombardo-emiliana don Giuliano Giacomazzi, il direttore dell’Opera salesiana don Renato Previtali, il responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale Scolastica don Fabio Landi, docenti, genitori e catechisti, l’incontro è stato aperto dal saluto di benvenuto del parroco di Sant’Agostino don Virginio Ferrari, che ha sottolineato come l’educazione sia «una sfida e un’arte», sulla quale i Salesiani di Milano, a partire dal Discorso alla Città 2020, hanno voluto riflettere in questi mesi. E questo, naturalmente nella logica della scuola salesiana di Milano che conta 2000 studenti – dalla primaria ai licei, alle fondamentali Scuole di avviamento professionale, come era nel carisma originale di don Bosco – e della presenza oratoriana e parrocchiale.
Il dialogo con l’Arcivescovo
La prima domanda viene da una mamma: «Come possiamo far sentire ai nostri figli quale grande valore è la vita?».
Tre i “consigli” dell’Arcivescovo: «Ci sono delle pratiche ordinarie che dimostrano come la vita sia ricevere un dono: perciò la preghiera di ringraziamento dovrebbe ritmare la vita della famiglia e della scuola. Dobbiamo svegliarci la mattina ed essere sopraffatti dalla gioia per come è bello e affascinante essere vivi». Poi, «parlare ai propri figli con l’arte della conversazione, che non è l’atteggiamento dell’insegnare, non il rimprovero, né la banalità, ma il racconto di sé e di ciò che accade».
Terzo, «insegnare ad apprezzare i fratelli e le sorelle, creando magari dei riti, che non siano solo quelli tradizionali e realizzando, appunto, conversazione e amicizia tra loro e con i genitori».
Ma «come costruire un patto di condivisione con le altre agenzie educative?», è la domanda di un papà.
«È chiaro che tale alleanza è sempre frutto di un convergere e che la famiglia è il luogo dove è più sentita questa necessità». Occorre – secondo l’Arcivescovo – essere consapevoli della modestia e di essere inadeguati, quindi, «né delega da parte dei genitori, né invadenza rispetto alle altre agenzie educative. Serve, invece, una partecipazione capace di costruire attraverso l’integrazione dei vari aspetti educativi, evitando la dispersione in una sorta di bulimia di esperienze che stanca tutti e non porta da nessuna parte. Vi è, infine, una responsabilità del convocare dove la parrocchia può essere il luogo privilegiato in cui fare incontrare i diversi attori: ragazzi, genitori, insegnanti ed educatori». Come a dire, la comunità educante si costruisce con modestia, consapevolezza, partecipazione e convocazione reciproca.
È la volta di una catechista: «In questo contesto pieno di smarrimento e relativismo, che ruolo può avere la catechesi?».
Il riferimento di monsignor Delpini è alla sua lettera Il miracolo delle catechiste: «Io sono stupefatto da migliaia di donne, soprattutto, che seguono i ragazzi nella formazione. La catechesi è un miracolo perché c’è questo popolo di persone che quotidianamente offre un tale servizio. Dare un punto di riferimento ai ragazzi, che noto vi partecipano molto (e questo è un altro miracolo), è importante».
«Ma – avverte subito il Vescovo – la vicenda è più complessa perché oggi siamo passati a una sorta di accompagnamento che non è solo insegnamento, ma anche aiuto nel catecumenato; non solo la trasmissione di una dottrina, ma un invito a porsi domande cristiane. La catechesi è l’impegno sistematico per una mentalità cristiana che, forse, sarebbe utile anche agli adulti che, spesso, ne fanno volentieri a meno. Il punto decisivo è annunciare la proposta cristiana come promettente e che, dunque, anche il percorso che si fa per comprenderne i contenuti, è desiderabile. Il Cristianesimo, prima di essere una dottrina, è infatti una promessa di vita buona: perciò la catechesi è strumentale a trasmettere la speranza».
Si prosegue con un’insegnante della scuola, mamma di due bimbe: «Come coniugare istruzione ed educazione?».
La risposta dell’Arcivescovo si avvia dalla situazione attuale. «Penso che la didattica a distanza può comunicare istruzione, mentre non si può educare a distanza. Infatti, su una piattaforma si possono trasmettere nozioni, ma l’educazione è non soltanto un esercizio intellettuale, è una forma relazionale, di condivisione, di tempo, di sentimenti, di giudizio. Credo che la coniugazione tra questi due aspetti formi il camminare insieme». Insomma, solo l’istruzione educativa «fatta per coltivare intelligenza, curiosità, sapere, ricorrendo anche a un dimensione umanistica e non solo tecnica», e «la relazione sapiente» creano la vera educazione. «Un grande merito della scuola sarebbe insegnare a pensare e non solo a imparare, non fabbricando degli schiavi, ma facendo crescere persone che sappiano fare il loro mestiere, comprendendone il senso».
Luca, giovane educatore del gruppo adolescenti e allenatore, chiede «come aiutare i giovani a gestire e ad affrontare le fatiche della vita».
«L’attrattiva della mèta – evidenzia l’Arcivescovo – persuade al cammino anche se questo è nel deserto. Il giovane, l’adolescente, deve essere accompagnato a capire che è desiderabile diventare adulti. È certo che se noi adulti passiamo la nostra giornata a lamentarci, non siamo convincenti. La responsabilità che abbiamo è ringraziare della vita. Questo è un primo passo che convince perché l’adolescenza non sia una sorta di parcheggio».
Anche in questo caso, arriva un secondo “consiglio”: «Nessuno sia lasciato solo in quell’apprendistato che sono i fallimenti come componente necessaria della vita. Bisogna aiutare i ragazzi ad avere stima di sé, non perché sono i migliori, ma perché sono amati e, quindi, resi capaci di amare». «Un meccanismo che la famiglia conosce molto bene e, nel cui contesto, i genitori e adulti «devono mettere nel conto anche i fallimenti, perché l’opera educativa non è la costruzione di automi, ma è accendere libertà, confermare – specie nei momenti difficili – fiducia». «Il palliativo che allieva il dolore del fallimento e genera dipendenza è una rovinosa insidia per i giovani, soprattutto in questo mondo di chiusura virtuale che induce a fenomeni preoccupanti in molte fasce di età».
Infine, una consacrata delle Figlie di Maria Ausiliatrice, suor Francesca, che svolge apostolato in oratorio: «Come evitare lo scoraggiamento ed essere invece portatori di speranza?».
«Anche noi consacrati possiamo attraversare la tentazione dello scoraggiamento, ma abbiamo gli strumenti per superarla. Anzitutto, abbiamo la speranza, che non è la previsione che si deve a un calcolo o un’aspettativa generica di ottimismo. La speranza è la risposta a una promessa che viene da Dio e dalla vita che suscita un desiderio e accoglie, così, l’invito ad andare oltre, perché sappiamo che c’è una terra promessa, una comunione, seguendo Gesù e tenendo fisso lo sguardo su di lui. Il Signore che è risorto – il suo fallimento è stato il luogo del sua gloria – ci offre un punto irrinunciabile per superare lo scoraggiamento, facendo di ogni smarrimento, di ogni situazione, un’occasione per amare. Non è l’ansia della prestazione, ma è credere che c’è una sorgente di gioia anche nella prova. Noi cristiani dovremmo avventurarci nel mistero della gioia, di quella sorpresa che permette di trovare un motivo di letizia anche là dove il contesto sembrerebbe soffocare ogni gioia».
A concludere la serata è don Giacomazzi che richiama «il filo rosso che lega queste riflessioni a don Bosco, il quale diceva che educare è prendersi cura con simpatia e che, di fronte ai drammi della gioventù del suo tempo, scriveva: “Se trovassero un amico…”. «La gioia diventa carne e sangue nella vita dell’educare».