Redazione

di Pierangelo Sequeri
Facoltà teologica, Milano

Naturalmente è il diligere che fa il problema. Il tema, a prima vista, lo fa quel solenne pro veritate, che assegna profilo alto e nobili motivi al progetto virtuoso.

Perché proprio diligere? Non basta sopportare, tollerare, accettare? E perché non resistere, affrontare, sfidare persino? Dobbiamo proprio amarle queste adversa che ci vengono incontro? Il verbo porta una tale sfumatura di affezione premurosa, e inclina così suggestivamente verso la predilezione, che quasi le nobilita, le avversità.

Non ci sarà anche un filo d’ironia nella scelta del termine, in vista della salutare sorpresa che un simile paradosso è destinato a suscitare? Forse l’astuzia sta proprio qui. Il diligere, che quasi va loro incontro, le diversità le irretisce. Le disorienta. Mostrandosi imperturbabile nell’accoglierle, avvolgendole con la semplicità della propria dedizione, azzera la pressione destabilizzante di ciò che crea ostacolo. Ne confonde l’intenzione, lo distrae dal suo obiettivo, neutralizza il suo effetto.

«Chi ci separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, i pericoli, la spada?» (Rom 8, 35). Chi ama la verità, le avversità se le aspetta di certo. Disponendosi attivamente ad assorbirle, nello stesso indefettibile amore che nutre per il bene che la verità rappresenta, impedisce alla congiuntura ostile di separare la verità e l’amore.
Abbiamo inteso la risonanza di questo cantus firmus dell’arcivescovo Martini che sempre si percepisce – talora inavvertito nel testo – nell’atto del magistero e del ministero? Ci ha persuasivamente incalzato l’intonazione di quel diligere, nella tenacia del tratto che ne evocava l’indispensabile armonia?

Pro veritate, adversa diligere. Nell’azzardo controcorrente del richiamo al primato ineguagliabile della Parola di Dio e al primum della dimensione contemplativa della vita. Nella sfida della ingovernabile complessità del comunicare e nella mortificazione della dolorosa passione educativa. Nella demoralizzazione che insidia il difficile esercizio dell’umanesimo politico e nella tentazione dell’afasia di fronte alla destinazione eterna delle nostre vite.

Lungo tutto l’itinerarium mentis al quale siamo stati indirizzati, in vista di uno spregiudicato discernimento dei fondamentali per l’odierna vita cristiana e sociale, l’ostinato di quel diligere ha retto i passaggi cruciali. Il fermo invito a non lasciarsi divorare dal pessimismo, la pacata ironia nei confronti di ogni lagnoso indugiare, la nonchalance del garbato sottrarsi all’inutile polemica, l’apertura dello sguardo alla bellezza spirituale – persino a quella improbabile della routine – l’incoraggiamento alla pratica di una preghiera disarmata e confessante nei confronti della nostra stessa debolezza, in vista del massimo ricarico di ogni speranza sul conto di Dio.

Ecco alcune fra le armoniche di quel suono generatore e rigeneratore. Nell’accordo di quel diligere, che nella sua cadenza risolutiva coinvolge le dissonanze più aspre, la passione per la verità si vieta di diventare ottusamente dispotica nelle avversità, da amabile che era quando tutto l’assecondava. In tal modo, però, essa si assicura ben più che una mera coerenza con se stessa. Per questa, basterebbe resistere.

In quel diligere, essa distilla anche l’antidoto necessario per fronteggiare l’insidiosa tentazione che sta nell’ombra di ogni gratificante consenso. La sottile adulazione, l’eccesso della devozione, la premurosa compiacenza, l’enfatica ammirazione, non appaiono propriamente come adversa. Eppure. Il facile consenso ha un suo modo sottile e penetrante di indebolire la rectitudo dell’affezione pur destinata – e con tutta sincerità – all’amore del vero.

«Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi: allo stesso modo, infatti, facevano i loro padri con i falsi profeti. Ma a voi che mi ascoltate io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano» (Mt 6, 26-27).

Il sigillo della grandezza d’animo è impresso nella trasparente fermezza con la quale un uomo resiste a questa prova del fuoco. In quell’ adversa diligere, costui metabolizza persino l’ostacolo in energia vitale, per la buona testimonianza.

In virtù di esso, però, neppure si lascia indebolire dal percorso agevolato. Dell’avversità, quell’affezione disinnesca pure la delusione, l’amarezza, il risentimento, lo scandalo: che avviliscono l’animo anche nel compimento del bene.

Il segreto dell’impeccabile tenuta di stile che ne deriva, anche nella congiuntura favorevole del vento, è coltivato proprio nell’assiduità di quell’esercizio. Se quest’uomo è un credente, la sua fedeltà rischiara la vita e allarga il cuore per la fede. Se è anche pastore e guida per i credenti, la traccia che essa imprime è di quelle che non si cancellano. In tal caso, mai potresti accettare di essere confuso fra la schiera dei benedicenti di circostanza o di professione.

Il solo timore del rischio te ne imporrà il riserbo. Finché l’ora del congedo non sciolga l’impaccio, e ognuno possa provvedere al debito dell’ammirazione e della gratitudine che proprio allora – in perfetta libertà e gratuità – deve colmare la misura che gli spetta. Pro veritate.

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