Il Vicario monsignor Azzimonti anticipa alcuni contenuti dell’incontro che vede parroci e vicari di Milano riuniti a Triuggio per riflettere sull’abitare, tra problemi sociali ed esistenziali, sulla pastorale quotidiana, sull’identità del prete oggi
di Luisa
BOVE
Parroci e vicari (salvo quelli impegnati nella Pastorale giovanile) di Milano sono invitati alla consueta tre-giorni che si tiene dal 27 al 30 gennaio a Villa Sacro Cuore di Triuggio, sul tema «Inventare la tradizione, abitando la transizione». Ne parliamo con monsignor Carlo Azzimonti, Vicario episcopale della Zona I, che per la prima volta guiderà le giornate.
Con quale sguardo osserverete Milano?
Abbiamo pensato a un approccio laico per essere aiutati a leggere la città che sta cambiando in modo significativo, con le eccellenze che ci vengono riconosciute, ma allo stesso tempo con la fatica del vivere, dell’abitare. E noi, come pastori che viviamo a contatto della gente, vogliamo comprendere come reagire e come aiutare i nostri fedeli a reagire positivamente. Ecco perché abbiamo invitato Gabriele Rabaiotti, assessore ai lavori pubblici del Comune, e Silvia Landra, psichiatra e direttore del Centro studi Souq.
Tra l’altro state avviando una collaborazione tra Comune e Diocesi…
Certo. A partire dal Discorso di Sant’Ambrogio sta evolvendo questo rapporto con il Comune, perché come Chiesa non siamo un’isola, ma vogliamo sempre più dare una mano. Crediamo che una sana collaborazione – pur nella distinzione dei ruoli – tra ente pubblico in generale e Chiesa sia assolutamente necessaria, come l’Arcivescovo ha indicato e come anche il Sindaco ha raccolto e pare desideri implementare.
Avete già individuato gli ambiti?
Stiamo ancora ragionando, ma pensiamo alle fragilità (quindi attraverso i servizi sociali), alla prevenzione e alla cura delle dipendenze, specie in realtà molto critiche come Rogoredo o altre; rispetto ai contesti più positivi ci sono i doposcuola e l’integrazione dei migranti. Poi c’è la questione dell’abitare, con il problema delle case popolari e dei soggetti gestori per cui il Comune fa le sue fatiche: bisogna facilitare sempre più la gestione, affinché il cittadino possa sentirsi accompagnato nell’abitare la città e non scontrarsi con la burocrazia che frena tutto e affatica le relazioni.
Tornando alla tre-giorni, sono previsti anche laboratori…
Sì. Invece delle classiche conferenze frontali, vogliamo essere accompagnati da don Paolo Carrara, teologo pastoralista, e confrontarci direttamente. È già stata elaborata una traccia su tre livelli: parrocchiale, decanale, cittadino. Ci divideremo in gruppi e lavoreremo a partire dall’esperienza. Siamo tutti reduci dalle benedizioni alle famiglie: vogliamo ragionare su questo gesto missionario che può continuare, non soltanto attraverso i preti, ma sempre più con la cooperazione di laici e religiosi. Penso anche alle esequie, dove incontriamo persone che non frequentano più o non sono inserite nel mondo ecclesiale, che domandano di celebrare in chiesa il momento della morte di un congiunto.
Un’altra riflessione riguarda il cambiamento d’epoca…
Abbiamo chiesto a monsignor Calogero Marino, vescovo di Savona-Noli, di interpretare soprattutto il magistero di papa Francesco, con la consapevolezza che stiamo vivendo non un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca. Occorre una riforma della Chiesa, non astratta o per paradigmi teorici, ma da tradurre nella quotidianità della vita pastorale. Accogliamo quindi la sfida che il tempo presente ci pone d’innanzi, non nel segno della lamentela o dello scoraggiamento, ma nella logica della gioia dell’evangelizzazione.
Oggi il prete rischia ancora la deriva nel clericalismo e neoclericalismo. Come evitarlo?
Per questo abbiamo chiesto a un giovane vescovo e teologo, monsignor José Tolentino Mendonça, di aiutarci a ricomprendere la nostra identità di preti, anzitutto di uomini credenti che accolgono nel proprio vissuto il compito di essere pastori in questa Chiesa e società che cambia, superando il rischio di volgersi al passato. Il neoclericalismo è la tentazione di chiudersi in un ruolo che difende e crea distanze. Invece dobbiamo essere capaci di relazione, di apertura verso tutti, senza tradire la nostra vocazione, fuggendo ogni forma di clericalismo e neoclericalismo, per svolgere il compito pastorale a partire dalla fondamentale e comune dignità battesimale.