Redazione
Ricorrono nel 2007 i 50 anni dalla pubblicazione dell’enciclica di Pio XII che ha dato vita a un’originale e peculiare esperienza di missio ad gentes.
di Pier Giuseppe Accornero
Il 21 aprile 1957 – giorno di Pasqua di cinquant’anni fa – Pio XII promulgava un’enciclica che avrebbe suscitato in tutto il mondo un incredibile movimento missionario. Da allora il titolo del documento, Fidei Donum, il dono della fede, indica un tipo particolare di sacerdote: quello che, rimanendo prete diocesano, sente la vocazione missionaria e parte, inviato dal suo vescovo e dalla sua Chiesa, come “dono di fede” alle terre di missione. I fidei donum non vanno confusi con i missionari religiosi perché restano diocesani e – dopo un periodo più o meno lungo – tornano in patria per “contagiare” le Chiese d’origine con la loro esperienza missionaria.
L’enciclica di Pacelli è decisamente profetica, perché anticipa uno dei “pilastri” del Concilio Vaticano II (1962-65), cioè lo spirito missionario che deve animare tutta la Chiesa e ogni battezzato, anche se l’impianto concettuale e il linguaggio non sono certo conciliari. Il documento indica come terra di missione soprattutto l’Africa, investita dalla ventata di indipendenza che porta, con sanguinose rivolte e guerre, alla fine del colonialismo e alla nascita di molti nuovi Stati.
In realtà sono molto più numerosi i preti partiti per l’America Latina; seguono l’Africa e, in misura marginale, l’Asia e l’Oceania. Il concetto di Pio XII sarà approfondito e sviluppato dal Concilio, da Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, che nell’enciclica Redemptoris missio del 1990 afferma: «I presbiteri evidenziano in modo singolare il vincolo di comunione tra le Chiese, danno un prezioso apporto alla crescita di comunità ecclesiali bisognose, mentre attingono da esse freschezza e vitalità di fede».
L’ispirazione di fondo del fenomeno è lo scambio di doni, ma ora lo scenario è totalmente mutato. Numerose diocesi faticano a garantire una normale attività evangelizzatrice e pastorale per la carenza di sacerdoti, per l’età sempre più avanzata e per la mancanza di vocazioni, fenomeni ancora più accentuati nelle congregazioni religiose. In cinquant’anni la situazione si è ribaltata: oggi i fidei donum italiani nel mondo sono 575, mentre i preti “importati” dal Terzo Mondo sono 1800.
La 57ª assemblea della Cei, svoltasi in Vaticano dal 21 al 25 maggio, ha riletto in una chiave ecclesiale e missionaria più vasta l’entusiasmante storia dei fidei donum. La prima fase (1957-1968) registra una partenza molto stentata: nel 1968 in Africa operano solo 40 preti. La seconda fase (1969-1985) è molto vivace: il Concilio rilancia decisamente la missio ad gentes, c’è un forte aumento dei missionari e dei fidei donum (nel 1975 salgono a 108 e nel 1979 a 143). La novità è la partenza dei laici, in special modo coppie di sposi. A metà degli anni Ottanta la maggior presenza: circa 700 unità. La terza fase è l’ultimo ventennio, con un lento e inarrestabile calo: dai 713 del 1996 ai 575 del 2006 (dati Cei).
In cinquant’anni i fidei donum sono stati circa 2000. Un numero limitato, ma un fenomeno sorprendente per i risultati maturati nelle comunità: nessun altro soggetto missionario ha portato la cooperazione tra le Chiese nell’esperienza delle persone, delle parrocchie, delle diocesi. Attorno a questi protagonisti della missione si è creata una vasta rete di rapporti personali, familiari, parrocchiali, ecclesiali, con un’incredibile capillarità di iniziative e una galassia di amici, sostenitori, volontari.
Più dei missionari e delle missionarie degli istituti religiosi, rimasti lontani dalle Chiese di origine nella formazione e nel servizio, i fidei donum conservano costanti rapporti con le comunità che hanno visto crescere la loro vocazione e in cui hanno esercitato il ministero. Confratelli, parrocchie e fedeli imparano a conoscere la missione proprio grazie ai fidei donum. Corrispondenza, viaggi e Internet favoriscono i contatti e lo scambio. Spesso le diocesi valorizzano l’esperienza come espressione del protagonismo missionario e i vescovi conoscono le giovani Chiese visitando i loro preti e accogliendo vescovi e sacerdoti delle diocesi “gemellate”. È, insomma, un “ponte tra le Chiese”.
Ci sono state anche grosse difficoltà. All’inizio un certo stile “colonialistico” dei preti in missione; le remore di vescovi, preti e fedeli dei Paesi ospitanti ad accettare il “dono della fede”; l’eccessivo isolamento e l’incapacità di lavorare in équipes tra preti di continenti e Paesi diversi; la difficoltà di imparare le lingue e i dialetti. Tuttavia, scrive monsignor Moacyr Grechi, vescovo in Amazzonia dal 1972, «tra i fidei donum ho incontrato alcuni tra i migliori preti della mia lunga vita di vescovo e ho apprezzato la loro disponibilità a lavorare nei luoghi più difficili». Ben 25 fidei donum sono stati nominati vescovi e ben più di un centinaio ricoprono o hanno ricoperto compiti delicati e importanti: vicari generali, vicari episcopali per la pastorale, rettori e padri spirituali nei Seminari, parroci delle cattedrali. E oggi sono oltre un centinaio i religiosi missionari italiani diventati vescovi in molti Paesi.