Visita alla clinica Mangiagalli e celebrazione nella chiesa dell’Annunciata alla Ca’ Granda
di Annamaria
BRACCINI
I lamenti che si sentono e rendono grigie le nostre città e i lamenti proibiti che tanto spesso riguardano la vita, il suo inizio, la sua fine, la sua bellezza e la sua miseria. Forse, non è un caso che l’arcivescovo, in due luoghi simbolo nei quali si intrecciano cura, nascita e cultura – come la clinica Mangiagalli e la Ca’ Granda (appartenenti, peraltro, alla stessa Fondazione) -, abbia affrontato proprio il tema della vita. Così, come alla Mangiagalli, nel periodo della festa dei Santi innocenti, il pensiero era andato «ai lamenti delle donne che desiderano un bambino e non riescono ad averlo», nella chiesa dell’Annunciata del complesso della Ca’ Granda, il richiamo è stato alla vita come vocazione, sull’esempio del «sì» di Maria.
«Oggi sembra che generare figli sia diventata una specie di imprudenza, di spesa per la società, un vincolo alla libertà. È proibito lamentarsi alle madri che hanno rinunciato alla maternità con l’interruzione volontaria della gravidanza che sembra un diritto da rivendicare. Quindi, occorre nascondere il senso di colpa che questa scelta drammatica, qualche volta, e, qualche altra, assunta con troppo sbrigativa superficialità, porta con sé. Come si fa a lamentarsi di aver esercitato un diritto? È proibito dire quale dramma e senso di colpa può essere abituale per chi ha fatto questa scelta. Ci sono lamenti che quasi vengono applauditi quando diventano proteste e lamenti che sono rimproverati quando vogliono esporsi in pubblico per chiedere di ripensare a questo capitolo complicato». Capitolo di una questione sempre dolorosa – e non solo per le donne – perché coinvolge la parte più profonda dell’umanità che tutti condividiamo e perché «non siamo solo un poco di chimica e di fisica che si combinano per leggi incomprensibili».
«Le persone non sono numeri e materiale biologico, non si classificano in base a quanto possono pagare e contare. La dignità non dipende dal livello sociale o culturale, ma dal fatto che siamo chiamati a partecipare alla vita di Dio. Nessuna condizione fisica ed economica può strapparci la dignità di essere collaboratori di Dio per il quale ciascuno di noi è prezioso». E, ancora, sempre con le parole dell’arcivescovo: «Il Figlio dell’uomo generato dal grembo di una ragazza, dice quanto sia infondata la nostra fantasticheria di un Dio lontano, insensibile ai drammi della storia. La condivisione è lasciarsi ferire in profondità, perché Dio, amico della vita, sente ripugnanza per la morte. Il grido delle madri lo fa piangere come di fronte alla tomba di Lazzaro». In una parola, non si può dimenticare Dio ed emarginarlo, magari professandosi cristiani e dimenticandolo appena si esce dalla chiesa la domenica.
Nel dolore e nel lamento, nella gioia di una nascita, nell’angoscia per una morte, nella vita di tutti i giorni, «Dio c’entra perché fa della vita quotidiana una vocazione e della storia umana un luogo in cui esercitare la propria responsabilità al servizio del bene di tutti». Quel bene comune per cui lavorare con impegno, anche se i problemi sono grandi e possono spaventare, anche se è difficile non opporsi, tra steccati politici e muri ideologici, su temi come la vita, appunto. Un appello, dunque, alla responsabilità condivisa anzitutto, per chi svolge un ruolo pubblico.
«Gli uomini che operano nelle istituzioni sappiano che devono rendere conto a Dio, nella gestione delle risorse». Una consapevolezza necessaria «anche per chi, nell’esercizio della vita politica e nell’attività economica, strumentalizza Dio per le proprie ambizioni e per imporre il suo potere, aprendo così la porta al calcolo meschino, all’arroganza e all’autoritarismo».