Redazione
«Con il fatto di Arezzo il pallone non c’entra nulla – spiega
il giornalista -, ma la violenza che ne è seguita è lievitata
dentro il suo mondo, che a lungo ha accettato connivenze
con gli ultras, tollerato degenerazioni para-politiche
e manifestazioni di razzismo, o addirittura solidarizzato
con personaggi ignobili come il comandante Arkan. Un’altra
spirale da spezzare è quella tra la parte deteriore dei mass media
e i peggiori istinti del tifo. Come ripartire? Seguendo l’esempio
dell’Atalanta, e magari ritornando all’utilizzo degli idranti…»
di Mauro Colombo
«Negli episodi di domenica il calcio non c’entra per niente e centra del tutto». È solo apparentemente paradossale la considerazione di Gigi Garanzini, giornalista da sempre abituato a raccontare lo sport con pacatezza e disincanto (attualmente lo fa sulle colonne de La Stampa e dai microfoni di Radio 24). E subito precisa: «Con il fatto di Arezzo, oggettivamente, il calcio non c’entra nulla. Ma la violenza che ne è seguita è lievitata dentro il calcio, ricettacolo di questa gentaglia da una parte, e di tante, troppe pulsioni sociali dall’altra».
La tragica morte di Gabriele Sandri è avvenuta lontano da uno stadio, molte ore prima dell’inizio delle partite, indirettamente originata da una lite tra tifosi di due squadre che non si sarebbero affrontate direttamente. Tutto ciò rappresenta un’attenuante, oppure un’aggravante?
Secondo me un’aggravante fortissima, perché dimostra a quale livello di degrado sia giunto il modo di interpretare il calcio oggi in Italia. La fazione è sempre esistita, ma non ha mai toccato un simile livello di tribalismo. Questo significa che non basta più ripulire dalle “incrostazioni”, come poteva essere sino a qualche anno fa, ma occorre incidere per andare a eliminare un male ben più profondo.
Ma domenica sarebbe stato meglio giocare dappertutto o sospendere tutto?
Sinceramente non lo so. Ma il problema sta a monte, nell’errata gestione dell’episodio di Arezzo, a partire da quel primo lancio dell’Ansa che ha presentato Sandri come un tifoso anziché come un dj, per arrivare al Ministero dell’Interno, che finché ha potuto si è sforzato di occultare la dinamica del fatto. Senza errori e omissioni, non ci si sarebbe posti il quesito se sospendere o meno il campionato.
Lancio dell’Ansa a parte, l’informazione ha avuto un ruolo nell’attizzare il fuoco della violenza?
Senza dubbio. A livello di “pazzia”, il circo mediatico è solo di poco secondo al mondo ultras. C’è una liaison continua, ininterrotta e inquietante tra la parte deteriore di radio, televisioni e giornali e i peggiori istinti del tifo che da quegli strumenti vengono fomentati. Un’altra spirale da spezzare.
Il calcio ha responsabilità evidenti. In questi giorni, però, si è parlato della violenza ultras come dell’esplosione di una rivolta contro l’ordine costituito tout court: non si rischia, quindi, di attribuire al calcio anche colpe non sue?
Il rischio c’è, ma il calcio se l’è cercata, accettando per troppo tempo connivenze con questa gente. Si sono poi aggiunte degenerazioni para-politiche, con connotazioni predominanti di estrema destra, che non rappresentano però un’esclusiva italiana: la simbologia nazista, infatti, è ben presente anche nelle curve olandesi, romene o dell’Europa centrale. Un fenomeno di rara gravità, da cui il calcio ha avuto il torto di non prendere le distanze a tempo debito. I sensi di colpa odierni sono tardivi per un ambiente che ha tollerato a lungo manifestazioni di razzismo o addirittura ha solidarizzato con personaggi ignobili come il comandante Arkan. Queste cose, prima o poi, presentano il conto…
Dopo lo stop ai campionati di B e C, come si ripartirà il 25 novembre?
A medio e lungo termine, dobbiamo metterci in testa di tornare a ripensare al calcio come a una modalità per trascorrere il tempo libero, con gli eccessi legati a una passione, certo, ma sempre entro certi limiti. A breve termine, invece, la strada da prendere è quella imboccata dall’Atalanta, perché coinvolge tutti (presidente, allenatore, giocatori, città). È chiaro che il difficile viene ora: un conto sono le enunciazioni di principio, un conto è la prassi quotidiana. È altrettanto chiaro che lo Stato deve svolgere al meglio il suo compito di assicurare l’ordine pubblico. Al riguardo ho una mia teoria…
Quale?
Perché gli stadi italiani non sono dotati di idranti? Non sono armi improprie, ma validi deterrenti e strumenti utilissimi per raffreddare i bollori. Meglio ancora se caricati con acqua colorata, che all’uscita consentirebbe di individuare immediatamente chi si è reso responsabile di incidenti…