L’anniversario della morte del professore è l’occasione per le realtà legate al suo pensiero e alla sua azione di organizzare un incontro, che doveva essere incentrato sul rapporto con il Cardinale, dalla cura dell’uomo interiore alla scommessa sul protagonismo dei laici cristiani. È il tema di questo testo

di Franco MONACO

LazzatiMartini
Giuseppe Lazzati e il cardinale Carlo Maria Martini

La Fondazione intitolata a Giuseppe Lazzati va inscritta nel quadro dell’episcopato milanese del cardinale Carlo Maria Martini. Più esattamente nell’orizzonte delle affinità tra Martini e il professor Lazzati. Anche se, ovviamente, la Fondazione fu costituita a Milano dopo la morte dell’ex rettore dell’Università cattolica. Affinità profonde, semmai arricchite dalle differenze.

Martini biblista e pastore, Lazzati laico, universitario e uomo di cultura. E tuttavia accomunati da molti elementi: penso al rilievo della spiritualità ignaziana nella formazione di Lazzati, all’ancoraggio di entrambi alla prospettiva conciliare, a una visione estroversa della Chiesa a servizio della città dell’uomo, alla cura per le distinzioni di ambiti e responsabilità, alla scommessa sulla maturità del laicato. Merita tornarci su sinteticamente.

Decisivi, nel giovane Lazzati, il contributo di padre Fossati, un gesuita educatore del suo tempo, nonché la puntuale partecipazione agli annuali esercizi spirituali dettati appunto dai padri gesuiti nella loro casa del Sacro Cuore di Triuggio. Abbiamo gli appunti, stilati in quegli Esercizi, del ventenne Lazzati, che attestano una precocissima maturità. Già vi si rinvengono i cardini spirituali della sua intera vita e della sua intensa testimonianza cristiana. In entrambi – Martini e Lazzati – si coglie la cura per l’uomo interiore come fondamento di ogni azione. Pur nella diversità dei cespiti culturali e teologici, connessi anche a una certa distanza generazionale, con Martini, approdato a Milano a inizio anni Ottanta, Lazzati stabilisce subito una stretta sintonia: non solo dal fronte del rettorato della Cattolica, ma anche partecipando assiduamente con umiltà al Consiglio pastorale diocesano e prestandosi per molte altre iniziative a servizio della Chiesa ambrosiana. Al fondo in entrambi la ferma e comune adesione all’aggiornamento e alla riforma operati dal Vaticano II, che disegnava il volto di una Chiesa popolo di Dio tutta protesa alla missione, cordialmente aperta sul mondo moderno, impegnata alla sua evangelizzazione e alla sua umanizzazione. Sempre però preservando la distinzione dei compiti e delle responsabilità rispettive. Una Chiesa cioè al riparo da ogni residua nostalgia temporalista, che non pensa se stessa come potere tra i poteri, che non si proponga di «contarsi per contare». Una Chiesa che semmai si concepisce e opera come lievito, fermento, piccolo resto, minoranza intensa e vivace, lieta e non afflitta dalla sindrome dell’assedio.

Secondo il paradigma caro a Lazzati e Martini, tracciato dalla cosiddetta Lettera a Diogneto del secondo secolo dopo Cristo, ove i cristiani, nel mondo ma non del mondo, vivono all’insegna di una doppia «paradossale cittadinanza». Non a caso, a conclusione del Sinodo diocesano da lui guidato, Martini propone alla sua Chiesa di ispirarsi alle comunità cristiane primitive. Un quadro teologico-spirituale nel quale, naturaliter, si inscrive la scommessa su un ben inteso protagonismo dei laici cristiani. Sia nella edificazione della Chiesa (una cooperazione pastorale non meramente esecutiva ma anche ideativa e corresponsabile) sia e soprattutto sul piano dell’animazione cristiana delle realtà temporali. La politica in senso lato. Compito primario e peculiare del fedele laico, come recita la Lumen gentium. Un campo ove, per eccellenza, si esercita la sua responsabile autonomia. Attraverso il quale (e non nonostante il quale) il laico cristiano persegue il suo cammino di santificazione.

È significativo che, dopo la morte di Lazzati, Martini abbia voluto intitolare a lui le scuole di formazione politica varate dalla Diocesi su larga scala dopo il grande convegno «Farsi prossimo», additando il professore quale «esemplare testimone e maestro di laicità cristiana». Ed è ancor più significativo che Martini abbia voluto l’apertura formale del processo di canonizzazione del nostro professore in tempi tanto ravvicinati, entro cinque anni dalla sua morte. Avvalendosi di una norma canonica che si applica raramente e che risponde allo scopo di potere raccogliere le testimonianze viventi di chi lo aveva conosciuto.

Curiosamente, l’origine della Fondazione è quasi casuale. Legata a una ragione pratica. Si era liberata una struttura sita nel pieno centro di Milano, in largo Corsia dei Servi, tra il Duomo e piazza San Babila. Attigua alla chiesa di San Vito al Pasquirolo. Di remota origine medioevale ancorché ricostruita nel Seicento. Martini, mosso anche dalla preoccupazione che altre presenze potessero insediarsi nel cuore di Milano, diede disposizione affinché lo rilevasse l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero, all’epoca presieduto dalla carismatica figura di monsignor Giovanni Barbareschi. Amico ed estimatore di Lazzati, nonché uomo sensibile al valore della cultura. Se ne discusse in varie sedi, tra pastori e laici impegnati in Diocesi, e di lì sortì l’idea, che piacque a Martini, di dare vita a un centro di irradiazione culturale nel cuore di Milano. Del resto, quale figura genuinamente milanese più rappresentativa di Lazzati, che ci aveva lasciato nella primavera del 1986? Un cristiano esemplare, un uomo di cultura, un educatore di più generazioni del laicato ambrosiano, sin dai suoi anni giovanili al fianco del cardinale Schuster. Un padre, per Lazzati, che lo aveva accompagnato nelle sue decisive scelte vocazionali. Del resto, con la Fondazione, non si trattava di partire da zero. A testimonianza della fecondità dell’eredità lazzatiana, erano già molte e attive le realtà legate al suo pensiero e alla sua azione. Si decise perciò di destinare la bella e centralissima struttura a sede di talune di quelle realtà e di costituire la Fondazione al fine di assicurare un raccordo tra loro e di dare a quella memoria viva una certa stabilità.

Dunque, alla sua costituzione concorsero i seguenti soggetti (articolo 7 dello Statuto): l’Azione cattolica milanese; l’associazione «Giuseppe Lazzati» (già attiva come rete di circoli territoriali di cultura); «Città dell’uomo» (associazione di cultura politica, l’ultima creatura del Nostro); l’Istituto secolare «Cristo Re»; Gaetano Lazzati per la famiglia Lazzati; monsignor Barbareschi anche a nome di altri sacerdoti; il Centro sociale ambrosiano (erede dell’Isa, l’istituto volto alla diffusione della dottrina sociale della Chiesa, cui tanto contribuì Lazzati al tempo dell’episcopato Montini). Come si può notare, una singolare sinergia di Chiesa istituzione e di realtà associative laicali, una cordiale cooperazione tra laici e pastori, un’impresa ecclesiale e civile che fu resa possibile grazie a un fattore decisivo: quello della fiducia e della consonanza che contrassegnò il tempo dell’episcopato Martini. Una fiducia e una consonanza sull’asse Chiesa-cultura-laicato per le quali la figura di Lazzati, cristiano fedele e libero, rappresentava e rappresenta un esempio e una garanzia.

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