Nel tradizionale Convegno della Vigilia della Giornata della Solidarietà, presso il Centro Pastorale Ambrosiano, si sono affrontati i temi del lavoro giovanile. Tra esperienze positive raccontate in prima persona anche dai ragazzi impegnati nei tirocinii e analisi sociologiche, la riflessione dell’Arcivescovo ha posto alcuni punti fermi
di Annamaria
Braccini
«Vengo qui non con risposte o proposte, ma con domande che si rincorrono dentro di me. Non solo se ci sarà lavoro per i giovani, ma se ci saranno giovani per il lavoro, visto il calo demografico. E, ancora, quale lavoro? Che rapporto c’è tra la lavoro e vocazione personale? Dove sarà questo lavoro?».L’Arcivescovo che apre, con la preghiera e la sua riflessione il tradizionale Convegno della Vigilia della Giornata della Solidarietà, non ha ricette e soluzioni semplici da proporre sul lavoro giovanile, come è giusto che sia per un tema tanto difficile, quanto doloroso.
La domanda posta dal titolo dell’incontro, che si svolge nel Centro Pastorale di Seveso, “Ci sarà ancora lavoro per i giovani?” è di quelle che sanno di incertezza e di sfida, ma proprio per questo, anche di desiderio di impegnarsi per trovare soluzioni e cammini condivisi. Con alcuni punti fermi, «princìpi», come li chiama monsignor Delpini che parla davanti a esperti, ma soprattutto a molti giovani che provengono dagli Istituti professionali.
«I cristiani sanno che senza il Signore, la casa non sta in piedi. Nel modo di organizzare, di pretendere, di lavorare, di gestire l’economia, che posto ha Dio? Oggi il riferimento a Dio sembra quasi bizzarro e su questo occorre riflettere. Il secondo principio è il titolo della Giornata: la solidarietà, il sentirci insieme, non immaginando che l’individualismo possa mai produrre dei risultati, magari anche solo dal punto egoistico. Soltanto insieme si può, infatti, progredire, organizzare una convivenza fraterna, un benessere condiviso».
Infine, quelle parole che chiamano in causa ognuno di noi, pronunciate non «come vescovo, ma come cittadino».
«Il primo articolo della Costituzione sancisce che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Questa è una responsabilità di tutti, ma soprattutto di chi ha il potere, del governo. Mi pare che ci dobbiamo domandare se la politica che si sta facendo in Italia, e se i politici che stanno chiedendo il nostro voto, siano persone che lavorano per questo. Richiamo, quindi, questi tre aspetti: l’irrinunciabile riferimento a Dio, la condizione necessaria della solidarietà e il convergere della politica, delle forze sindacali e sociali, per attuare il principio costituzionale che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro».
Poi è don Walter Magnoni, responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale Sociale e il Lavoro a delineare il senso del cammino non solo del Convegno, ma di un più complessivo itinerario che, riprendendo i temi delle Settimane Sociali di Cagliari, «sia in grado di attivare un processo». Anche perché «la sfida intergenerazionale è decisiva per ricreare un patto sul lavoro che aiuti ai giovani a potersi inserire e gli adulti a fare spazio formando i ragazzi».
Infatti, all’assise sono presenti membri della Fondazione Clerici, delle Acli, dell’Enaip. Non a caso, in aprile, l’incontro diocesano in vista del 1 maggio sarà ancora dedicato ai giovani e vissuto con loro, spiega don Magnoni.
Anche un video racconta l’esperienza lavorativa giovanile. Quello curato da Paolo Cesana, delegato regionale della Confap (presente anche il presidente nazionale don Massimiliano Sabbadini), la Confederazione di Enti di Formazione, legata alla Cei, «che opera all’incrocio tra i processi educativi, le politiche attive del lavoro e quelle sociali».
Le immagini scorrono veloci con i volti dei ragazzi che partecipano alla sperimentazione dell’apprendistato di primo livello, all’interno del sistema Iefp di Istruzione e Formazione professionale, «una scelta utile per la scuola, per l’azienda e per i ragazzi, portando a un inserimento lavorativo molto più rapido».
Così, insieme ad altre due coetanee, salgono sul palco Manuel 18 anni, al 3 anno di preparazione pasti – «ho scelto la formazione perché si fa tanta pratica e ho imparato molte cose in poco tempo» – e Chiara, 16 anni, operatrice amministrativa e segretariale che conferma: «accanto a chi lavora sul campo si capisce meglio anche la teoria. Lo consiglio a tutti».
Infine, prima del buffet preparato con maestria e offerto dai ragazzi delle scuole alberghiere e della Tavola Rotonda nella quale ci si confronta e si delineano storie positive – molto belle le vicende della giovane stilista che, grazie ai nonni, è riuscita ad aprire un suo spazio e dell’imprenditore informatico che dà lavoro a un centinaio di dipendenti e insiste sulla formazione – è la volta della sociologa dell’Università Cattolica Rosangela Lodigiani che parte «da un’Italia che invecchia inesorabilmente con una trasformazione che non è solo demografica, ma sociale» .
«Le statistiche già dicono che, tra breve, i giovani non saranno sufficienti a rimpiazzare chi lascia il lavoro per età. Cambiando le fasce numeriche mutano anche i rapporti sociali come la solidarietà: questo dà sostanza alla domanda del Convegno», osserva.
Senza dimenticare «la difficoltà di incontro tra domanda e offerta di lavoro e i lunghi percorsi di inserimento e stabilizzazione professionale che portano a una complessa e prolungata transizione per l’ingresso nella vita adulta».
Un ulteriore aspetto interessante è la richiesta attuale di chi offre lavoro: una ricerca non solo di professionalità di alto profilo, ma anche di medio e di basso. «A questo spesso non si pensa, mentre è importante non fissarsi solo su una lettura univoca della richiesta, specialmente considerando la rete di piccole imprese che caratterizza il Paese».
Oscillando solo tra NEET – giovani che non studiano e non lavorano – e i cosiddetti “cervelli in fuga”, un trend, peraltro, in crescita, si rischia infatti, di offrire una lettura stereotipata della realtà che non rende giustizia al mondo giovanile.
Da qui alcune priorità: «mettere al centro dell’attenzione l’emergenza formativa, sapendo che si ha a che fare con persone che hanno bisogno di crescere professionalmente, ma anche umanamente attraverso esperienze di senso. Fondamentale, in questo, l’alternanza scuola-lavoro», per Lodigiani.
Poi, «le imprese, per le quali è tempo di innovazione non solo tecnologica, ma coniugata con la gestione delle risorse umane. Ciò significa mettere a valore il rapporto generazionale». E, ancora, l’investimento culturale, «perché occorre dare voce all’universo composito dei giovani. Se disegniamo solo negativamente la realtà, è chiaro che sarà sempre in agguato la sfiducia».
Rimane aperto quello che la sociologa definisce il «macropunto»: «in futuro, il lavoro ci sarà, ma mancherà l’occupazione per i cambiamenti portati dalla tecnologia e dall’automazione?».
Difficile dirlo, «ma il vero problema è capire che tipo di lavoro sarà e quali saranno i diritti ad esso collegati. La sfida è valorizzare tutte le forme lavorative anche quelle di cura o domestiche che, tecnicamente, non sono occupazione in senso stretto. Ciò chiama in causa la politica proprio per dare a queste nuove forme, diritti riconosciuti e forme di tutela. Difendere e promuovere il lavoro significa promuovere il luogo dove ci realizziamo come persone e considerarlo nella sua totalità».