La celebrazione eucaristica presieduta dall’Arcivescovo nel reparto femminile di San Vittore nel contesto di un’iniziativa nazionale di vicinanza ai detenuti: «Pur nell’amarezza e nella prova, si può vivere il limite come il confine davanti al quale nasce l’invocazione»
di Annamaria
BRACCINI
La tristezza, l’amarezza, il limite di vite visitate dal dolore, che portano a rassegnarsi, a ribellarsi, a sentirsi sempre vittime di qualcosa o di qualcuno. E invece il limite stesso che diviene preghiera e invocazione, facendosi speranza, canto e gioia.
Nella cappella del Reparto femminile della Casa circondariale di San Vittore, l’Arcivescovo presiede la celebrazione eucaristica in occasione dell’iniziativa “L’altra cucina… per un pranzo d’Amore”, promossa in tutto il Paese da Prison Fellowship Italia, associazione onlus che favorisce cammini di riconciliazione nelle carceri, in collaborazione con il movimento ecclesiale Rinnovamento nello Spirito e la Fondazione Alleanza di Rns. Tredici i penitenziari italiani – per un totale di 2000 reclusi – nei quali, in contemporanea, si svolgono i pranzi. Due, eccezionalmente, in Lombardia: a San Vittore, coinvolto per prima volta, e a Opera, dove l’appuntamento si rinnova da 5 anni. Sono 170 i coperti nel carcere di via Filangieri, in due tavolate allestite (una presso lo stesso Reparto femminile; l’altra, con detenuti, detenute e familiari, nel Centro polifunzionale); 150 invece i posti a tavola a Opera, dove la Messa viene celebrata dal Vicario generale, monsignor Franco Agnesi.
Tanti i volontari impegnati: in tutto oltre un centinaio. E poi gli chef stellati che preparano le pietanze; a San Vittore anche un gruppo di avvocati del gruppo “Toghe&Teglie” si mette dietro i fornelli.
Nella Cappella ci sono gli agenti di polizia penitenziaria, i volontari, le religiose, il direttore del carcere Giacinto Siciliano, Andrea Cantore (coordinatore regionale della Lombardia per RnS), ma soprattutto pregano e si commuovono tante recluse. Concelebrano i cappellani, don Marco Recalcati e don Roberto Mozzi, che, nei giorni scorsi, hanno portato in ogni cella la Lettera di Natale scritta dall’Arcivescovo.
L’omelia
«La vita di molti è visitata dalla tristezza, dai giorni dell’amarezza», nota subito il Vescovo, facendo riferimento alle Letture, con le figure veterotestamentarie di Noemi, Ester e Zaccaria, nel Vangelo di Luca. «Il limite, dunque, la minaccia di morte, la solitudine angosciosa. Come ci si comporta di fronte alla precarietà e all’amarezza che angoscia il cuore?». Diverse le risposte: «Ci sono uomini e donne che vivono l’esperienza del limite come un destino a cui rassegnarsi, perché ritengono che sia saggio vivere la vita secondo quello che si impone, il destino. Si possono gustare le gioie della vita, ma sempre sotto il velo della tristezza e la malinconia della rassegnazione. Pertanto è necessario dimenticare l’esito inevitabile, vivere distratti, superficiali, evitare di pensare e rassegnarsi al destino inevitabile». E ci sono quelli che sperimentano l’esperienza del limite come un’ingiustizia, come una cattiveria, una specie di trappola tesa da qualcuno; una condanna a cui vogliono ribellarsi. Così sono tesi, arrabbiati, sfidando il limite, quasi a dimostrare a sé e agli altri che è necessario vivere come superuomini e superdonne che vanno oltre, al di là del bene e del male, rivendicando di essere padroni del proprio destino e insofferenti di ogni limite».
Ma poi esistono sempre «uomini e donne che considerano il limite come la soglia alla quale si può bussare, come un muro che si presenta invalicabile, ma che, allo sguardo della fede, lascia aperta la porta stretta da cui si può andare oltre. Vivono il limite come il confine davanti al quale nasce l’invocazione. Costoro fanno consistere la saggezza nella riconoscenza e la sapienza nella preghiera. Sono persone che, pur amareggiate dalla vita e messe alla prova, invece di ribellarsi, si mettono a pregare, in quell’ascolto di Dio che chiama alla comunione e semina la speranza». Così, suggerisce l’Arcivescovo, «si può vivere il limite da credenti», quando si conosce l’arte di pregare e «si riconosce la misericordia di Dio».
Magnifico il messaggio o, meglio il canto, che, come preghiera, lui stesso recita e lascia alle detenute: «Se non sai che cosa sia la gioia: preparati a danzare. Se sei ristretto e privato della libertà, preparati a correre in libere strade, a volare in liberi cieli. Se tu soffri d’essere sola e abbandonata, preparati a forti abbracci. Se non hai avuto il figlio che hai tanto sospirato, preparati a sentire il vagito di un bambino. Se tu sei un figlio di uomo, preparati a essere figlio e figlia di Dio».
«È difficile il Natale in carcere», dice a conclusione (prima della bella esecuzione di canti da parte di artiste) il direttore Siciliano, rivolto direttamente all’Arcivescovo: «Ho visto qui gente che pregava, piangeva, che palesemente soffriva, ma lei ci ha lasciato un grandissimo messaggio: la gioia del limite, che può diventare sprone a essere diversi. Ci prepariamo a vivere, anche con alcuni familiari di reclusi e recluse, un momento di festa con artisti, persone che prestano il proprio impegno perché questa sia una giornata differente dalle altre. Gli chef stellati che entrano in carcere non cambiano la vita, ma è comunque un gesto di amore che vuole, per un giorno, trasformare il carcere».