È rivolta a loro la lettera annuale che monsignor Delpini indirizza agli sportivi: «Custodite il gruppo, il lavoro, la resilienza. E custodire è un modo di amare»

di monsignor Mario DELPINI
Arcivescovo di Milano

ragazzi e sport

Cara Giulia, caro Marco,

qualche anno fa ho iniziato a scrivere delle lettere molto brevi al mondo dello sport.

Sono convinto che lo sport sia una cosa bellissima, divertente, appassionante. Io non ho mai praticato sport ad alti livelli. Ma ho sempre giocato. A mio modo sono anch’io uno sportivo. Credo che fare sport, soprattutto quando si è più giovani, sia una cosa molto importante. Ti aiuta a crescere e a capire qualcosa della vita.

Ho pensato di scrivere la lettera di questo anno ai capitani. So che entrambi lo siete. E per questo vi scrivo. Non ho cose da insegnarvi. Invece, vorrei scoprire insieme con voi, l’importanza del ruolo che state vivendo.

Come sappiamo bene, il capitano serve per regolamento, perché è l’unico che può parlare con l’arbitro in campo, perché è quello che deve coordinare la squadra nelle operazioni preliminari al gioco, perché è quello che comunica e decide a nome della squadra.

Questi non sono solo accorgimenti tecnici, ma sono tutte operazioni che indicano come la figura del capitano sia chiamata ad essere un vero riferimento per la squadra. Per essere un buon riferimento è indispensabile essere corretti nel gioco e conoscere le regole. Ma serve in realtà molto di più: ci vuole passione e cura verso gli altri.

La storia dello sport, nelle varie discipline, ci consegna i nomi e le imprese di grandi e celebri capitani che ancora oggi sono presi a esempio, non soltanto per quello che davano in campo, ma soprattutto per le loro doti da capitano, che hanno fatto di una buona squadra una grande squadra. Infatti il capitano non deve essere per forza il più bravo o talentuoso giocatore in campo, ma deve certamente portare sul terreno di gioco e nei compagni alcuni valori imprescindibili.

Voglio consegnarvi una parola. Il verbo custodire

Il capitano è custode del gruppo: tiene in modo particolare al fatto che ogni compagno e compagna di squadra stia bene nel gruppo. Non si occupa solo dei più bravi o di quelli con cui preferisce giocare, ma si fa prossimo a ciascuno, anzi, oserei dire, in modo speciale a quelli che giocano meno.

Sa dare attenzioni a tutti, sa far sentire ciascuno importante per il bene del gruppo, indipendentemente dalle doti tecniche. Ecco che cosa significa custodire: impegnarsi perché la squadra diventi un gruppo. La squadra si gioca in campo. Il gruppo si gioca nella vita reale.

Il capitano è custode del lavoro: è il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. Sa custodire il valore della fatica e del sacrificarsi nell’impegno e nella costanza e sa tenere la squadra anche quando si perde. È il capitano che aiuta la squadra a superare l’egoismo e le ambizioni personali. Ecco cosa vuol dire custodire: tenere fisso lo sguardo sulla meta e lavorare insieme per raggiungerla.

Il capitano è custode della resilienza: nei momenti più difficili e quando le cose non vanno come devono andare, sa trovare lo sguardo più profondo per aiutare sé stesso e i compagni a dare il meglio e a ripartire con speranza. Non permette che i suoi amici si scoraggino. In caso di sconfitta, è inutile cercare il colpevole da accusare, serve invece imparare quali errori si devono evitare. Il capitano è quello che ricomincia sempre da capo e ricorda sempre che è più importante essere fiduciosi che essere imbattibili. Ecco che cosa significa custodire: non escludere nessuno, non selezionare ma includere.

Cari Giulia e Marco, se siete capitani significa che avete meritato la stima di chi ha la responsabilità della squadra. Mi congratulo con voi. E vorrei dirvi che mi fido di voi. So che siete capaci di amare. Custodire è un modo di amare. Trattate con cura il vostro sport e gli amici con cui lo praticate.

Aspetto di incontrarvi in una delle mie frequenti camminate per la nostra vasta Diocesi. E quando mi vedete salutatemi così: Kaire Mario!

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