In un contesto generale che induce al pessimismo celebriamo la festa di Gesù risorto: «Da lui una promessa affidabile che apre a un orizzonte di speranza»

Questo contenuto non è disponibile per via delle tue sui cookie

di Annamaria Braccini

delpini-1

Come parlare di Pasqua in questo momento così doloroso di guerra e di diffuso pessimismo? Come portare una testimonianza cristiana credibile, di speranza, di pace, di fraternità, guardando alla risurrezione del Signore? A riflettere su questo tempo storico e di fede è l’Arcivescovo.

Eccellenza, in che modo possiamo interpretare questi giorni?
Ci si domanda spesso che cosa muova la storia, quali siano le forze che decidono delle vicende umane. C’è una lettura, diciamo, naturalistica, che invita a considerare i momenti belli e quelli brutti come una fatalità. Ci sono poi coloro che pensano che la storia sia mossa soprattutto dalle scelte degli uomini, per cui tutto viene letto come un problema economico in una vicenda umana, come è sotto gli occhi di tutti, fatta di ingiustizie, di umiliazioni e di interessi che muovono eserciti, decisioni, anche aggressioni tra popoli, come stiamo assistendo in Europa e in tante altre parti del pianeta. Forse altri dicono che è la politica e che, quindi, sono le scelte di coloro che hanno il potere che condizionano gli eventi.

E i cristiani?
I cristiani celebrano la Pasqua e pregano perché sono convinti che, nella storia, operi lo Spirito di Dio donato da Gesù risorto, che rende gli uomini e le donne capaci di fare il bene, di desiderarlo, di soffrire con chi soffre, ma anche di preparare storie migliori per scrivere un futuro di speranza. Io credo che se la storia fosse mossa solo dalla natura, dagli interessi economici o dalla politica, sarebbe già finita, perché queste potenze tendono a creare deserti e conflitti, a seminare morte. Lo Spirito dà vita e, dunque, io credo che proprio questa sia la ragione per cui la storia va avanti, l’umanità sopravvive a tante cattiverie, a tanti disastri e a tante ingiustizie perché c’è in noi quel dono dello Spirito che ci permette di amare, di ricostruire, di riconciliarci. Il bene vince.

In questi giorni di festa ci sono persone che si sentono ancora più sole. Lei è stato in carcere a Opera a celebrare la Via Crucis con alcuni detenuti. Che dire a chi in queste ore sente il peso della solitudine ancora più grave su di sé e sui propri errori?
Celebrare una Via Crucis, preparata e celebrata con i detenuti, mi sembra un simbolo interessante per tutti quelli che vivono confinati in casa o rinchiusi in carcere, o degenti in ospedali e in case di cura. Sono andato nel penitenziario di Opera meditando la Passione del Signore e riconoscendovi tanti elementi che fanno pensare: tanta solitudine di Gesù. La scena che, forse, interpreta meglio la situazione dei carcerati è quella del ladro crocifisso con lui, il quale riconosce che vi è una via di uscita alla sua solitudine, alla sua morte, alla sua sofferenza: «Ricordati di me, Gesù, quando sarai nel tuo Regno», dice, e Gesù assicura la pronta liberazione. Quindi questo vuol dire anche in carcere, anche tra persone che riconoscono il loro delitto o che soffrono ingiuste condanne, che sono chiuse in una situazione di desolazione. Quello che si può sempre dire al Signore è: «Ricordati di me», sentendosi rispondere: «Oggi io sono con te, oggi tu sarai con me in Paradiso». La presenza del Signore non è la vicinanza di un amico che va bene per i giorni di festa o per gente che può radunarsi in liete compagnie, ma è la festa di tutti perché Gesù dice a ciascuno di noi: «Oggi io sono con te, oggi tu sei con me nella Gloria del Risorto».

Lei invita a guardare con un occhio comunque positivo alla realtà, contro gli scoraggiamenti che attraversano la nostra società in maniera così profonda e incisiva. Se dovesse rivolgere una parola a quanti non vedono la croce e la risurrezione, perché magari non credono o credono di non credere, o perché, in ogni caso, le sentono lontane, cosa indicherebbe?
Vorrei dire una parola, commentando il Vangelo di Pasqua con Maria Maddalena che piange vicino al luogo dove è stato sepolto Gesù. Si avvicina una presenza misteriosa che le chiede perché pianga, e lei risponde: «Hanno portato via il mio Signore». Il pianto dell’umanità è dovuto al fatto di essere privata di ciò che possedeva o di ciò che immaginava di possedere. Il pianto dell’umanità è quello di chi si volge al passato e a ciò che ha perduto. Ecco cosa pensa l’umanità di se stessa: che siamo destinati alla morte e che l’unica consolazione è la patetica esecuzione di un rito funebre. Ma in questa desolazione c’è una parola che risuona e Maria riconosce il “Maestro”. Questo è l’augurio: di riconoscere che il ripiegamento su di sé e sul proprio dolore, sul proprio io, sulla nostalgia di quella che forse era un’epoca felice, è una forma di desolazione senza soluzione, ma che esiste un altro punto di vista, una possibilità di guardare a un orizzonte di speranza. Non si tratta di un ottimismo volontaristico, ma di rispondere a una chiamata che viene da Colui che può offrirci una promessa affidabile. Si tratta di volgersi verso il Signore Gesù, riconoscendo che Lui ci chiama per nome e può riempire di gioia la nostra vita, dare un senso al nostro futuro e farlo diventare una missione. Ecco quello che vorrei augurare a ognuno, di distogliere lo sguardo dal ripiegamento sulle nostalgie, sul proprio rimpianto e, invece, di volgersi verso una promessa di vita che dà fondamento alla speranza.

Ti potrebbero interessare anche: