Al Museo diocesano il tradizionale incontro con gli operatori della comunicazione sul tema «Scrivere sui margini»
di Annamaria
Braccini
L’inquietudine del giornalista, la professione in un mondo che cambia e nel quale non si può più “stare alla finestra”, la domanda fondamentale su chi siano i destinatari delle notizie, la libertà di una professione da vivere con accuratezza e rispetto delle persone, di ogni persona.
Il tradizionale incontro degli operatori della comunicazione con l’Arcivescovo di Milano – tornato dopo due anni di stop a causa della pandemia, in una location inedita come il Museo diocesano “Carlo Maria Martini” – ha avuto il sapore di un’intensa riflessione sul tema scelto, «Scrivere sui margini. La missione di raccontare le periferie dell’informazione alla luce delle carte deontologiche».
Diviso in due panel, entrambi moderati da Stefano Trasatti, direttore editoriale di Itl, fondatore e già direttore di Redattore sociale, l’incontro è stato aperto dai saluti del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Riccardo Sorrentino, del responsabile dell’Ufficio Comunicazioni sociali della Diocesi Stefano Femminis e da Nadia Righi, direttrice del Museo, che ha brevemente illustrato il significato della mostra, appena inauguratasi, «Lee Jeffries. Portraits. L’anima oltre l’immagine» (leggi qui). Una rassegna che, attraverso gli scatti dell’ormai famoso fotografo inglese, narra il mondo marginale della povertà e della vita di strada.
Il giornalismo sociale: un miniera di notizie
Nella prima parte, a prendere la parola sono tre comunicatori impegnati sulle frontiere complesse della marginalità e della mondialità, come Giorgio Bernardelli, redattore di Mondo e Missione e coordinatore di AsiaNews. È lui che osserva: «Ho un passato in un grande quotidiano nazionale, ma cercavo qualcosa di diverso, perché temevo di perdere di vista i volti delle persone. Undici anni fa ho scelto Mondo e Missione, la rivista del Pime edita dal 1872. Abbiamo bisogno di ritrovare la vita degli altri, non mitizzando i margini, ma mettendo in campo il realismo della speranza. Ci siamo fatti scippare il giornalismo dal marketing che ha scoperto lo storytelling per vendere prodotti».
A fargli eco Francesco Conte, videomaker di un grande canale pubblico tedesco e fondatore nel 2015 di TerminiTv: «Cerchiamo di narrare la gente che vive e che passa da Stazione Termini senza etichette e categorizzazioni, mostrando che, oltre l’immagine del senzatetto, dell’immigrato, del giovane sbandato, del piccolo spacciatore, c’è altro, ci sono le persone. Si tratta di un approfondimento culturale che costruisce comunità. La stazione, come spazio di transito e di incontro pubblico, è un luogo di grande ispirazione».
Da parte sua, Stefano Lampertico, direttore di uno dei più importanti giornali di strada europei come Scarp de’ tenis – 30 anni nel 2024 per un totale di 267 numeri, facente parte di un network di 120 giornali di strada di tutto il mondo -, spiega: «Il nostro giornale non è venduto in edicola, ma da persone in difficoltà, escluse dal mondo del lavoro. È un progetto editoriale e di lavoro perché una parte del prezzo di copertina rimane ai venditori. Scrivere per Scarp’ significa dare parola a gente che non ha diritto di esprimersi, dare voce a chi non l’ha. E per questo abbiamo il dovere di farlo bene».
«Il sociale è una miniera di notizie, che va trattato con le stesse competenze di altri comparti del giornalismo, con attenzione al linguaggio e alle immagini», concorda Trasatti, ricordando la lunga esperienza dei seminari di studio sul tema promossi da Redattore sociale a Capodarco.
L’inquietudine dei giornalisti
Da una sorta di breve racconto, che diviene la parafrasi allusiva di alcune realtà del lavoro della comunicazione di oggi in cui riconoscere l’inquietudine, si avvia l’intervento dell’Arcivescovo, che proprio all’inquietudine – da tenere sempre viva per non abituarsi alle ingiustizie e dimenticare gli “invisibili” – aveva dedicato il Discorso alla Città 2022 dal titolo «E gli altri?» (vai allo speciale).
«Dove lavori giornalista?», la domanda di partenza in un immaginario dialogo con tre comunicatori, uno impegnato in una fabbrica di armi micidiali, un altro in un supermercato e il terzo al Palazzo delle Nazioni Unite a New York. Tutti professionisti con la coscienza tranquilla, perché le armi sono strumenti di altissima precisione, perché è ovvio, nella scelta di prodotti, puntare su ciò che vende di più, mettendolo in prima fila negli scaffali, e perché ci sono procedure da rispettare in un grande consesso mondiale dove non è il giornalista che sceglie chi deve entrare e cosa deve dire.
Da qui le tre opzioni: «La comunicazione è una fabbrica di armi; è un’operazione commerciale, è far accomodare i popoli all’assemblea delle nazioni». Chiarissimo il richiamo simbolico a una professione che si preoccupa della perfezione degli strumenti più che delle loro conseguenze; del business più che del vero valore di ciò che si propone; dei protocolli formali più che dei diritti e del rilievo morale.
Il giornalismo d’inchiesta per non dimenticare
Nel secondo momento della mattinata, a confrontarsi con l’Arcivescovo sono due volti molto noti: Laura Silvia Battaglia, reporter e direttrice delle testate del Master in giornalismo dell’Università Cattolica, e Riccardo Iacona, giornalista Rai e anima della trasmissione «Presa diretta».
«Nel 2017 ho pensato di lasciare tutto dopo aver visto e filmato la morte di un bimbo nella guerra dimenticata dello Yemen e aver capito che questo non aveva smosso la coscienza di nessuno», dice Battaglia, che aggiunge: «Ma, poi, ho pensato che potevo mostrare le persone che cercano di avere una vita normale anche nei conflitti, come un maestro che ha trasformato la sua casa in una scuola, facendo un atto di resistenza per dare futuro ai bambini. Questa storia ha generato una quantità impressionante di donazioni da tutto il mondo e mi ha aiutato a capire che, per sentirci in grado di trovare una soluzione a ciò che non funziona, occorre la speranza. Io vivo sul crinale tra il raccontare la crudezza e la speranza. Credo che occorra toccare quello che non si può toccare. Possiamo raccontare il lebbroso, ma non lo tocchiamo, eppure penso sempre che i momenti migliori che ho avuto nel lavoro sono stati quelli in cui ho abbracciato chi ho raccontato».
«La prima cosa che deve fare un giornalista è imparare a essere libero – scandisce Iacona -. Abbiamo bisogno di un giornalismo più partecipativo: per troppo tempo siamo stati spettatori passivi di ciò che succede. Credere di non poter fare niente è un alibi, noi possiamo fare la differenza anche come costruttori di pace. Serve un nuovo protagonismo politico, mettendoci la faccia, non basta denunciare. Se il mondo e i poveri non vengono raccontati è per una scelta politica, di potere, per un rimanere agganciati alle “agendine” della politica partitica italiana che si mangia tutta la comunicazione, rendendoci persone inattive. Noi di “Presa diretta” abbiamo deciso di rompere questa passività, potendo costruire relazioni di senso che ci rendano meno spaventati e soli, che è il vero dramma del nostro tempo. Come fai a capire cosa sta succedendo a Milano, dove ci sono migliaia di persone sotto la soglia di povertà, se non condividi? Il giornalismo cosiddetto di approfondimento si potrebbe utilizzarlo anche nei quotidiani, scegliendo le priorità. Non dobbiamo aver paura dei social come strumenti, ma degli algoritmi perché intaccano la democrazia, sono un problema di salute pubblica (basti pensare al disagio psicologico giovanile che sta dilagando), e cambiano il modo in cui i si costruisce il consenso».
I destinatari della comunicazione
Infine, è l’Arcivescovo a esprimere il suo apprezzamento «per il contenuto di positività degli interventi, il riferimento alla speranza e il senso di responsabilità». «Incoraggio coloro che lavorano in questo campo ad avere consapevolezza che siamo tutti dentro una grande complessità, ma non siano destinati a essere comunque vittime. Tratto con una certa difficoltà, per esempio, il linguaggio della periferia, perché, girando Milano, mi sono fatto l’idea la differenza tra centro e margini è artificiosa. Io preferisco parlare di quartieri piuttosto che di periferie, perché questo permette di esercitare quella responsabilità dell’insieme che deve toccare la politica, l’amministrazione, ma anche tutti noi, affinché ciascuno possa fare la propria parte».
Due, allora, le consegne che l’Arcivescovo lascia ai presenti: «Voi offrite un servizio, ma dovete chiedervi per chi lo fate e che cosa volete suscitare, che interesse volete attirare. Il tema del destinatario della comunicazione e della responsabilità verso di lui vi deve stare a cuore. Io penso che il vostro lavoro debba essere animato da due atteggiamenti: la simpatia verso il destinatario che non è il nemico da svergognare o l’estraneo, ma qualcuno con cui si vuole costruire un rapporto, e la stima, ritenendo che l’interlocutore – un uomo, una donna, un gruppo, un popolo – abbia sempre in sé delle risorse di bene. Questo può aiutare a formulare il lavoro come modo per giovare al bene comune».
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