Pakistano sciita, ha dovuto lasciare il suo Paese a causa delle persecuzioni alla minoranza religiosa a cui appartiene. Giunto in Italia chiuso in un container navale, ha trovato la sua strada grazie all’Associazione Villa Amantea di Trezzano sul Naviglio
di Anna Sofia
TUCCILLO
«Sono stato aiutato io e adesso voglio aiutare». Così si conclude la testimonianza di Malik, rifugiato religioso di origine pakistana, invitato da padre Paolo Formenton a raccontare la sua storia nella parrocchia di San Lorenzo a Trezzano Sul Naviglio, durante l’ultima messa domenicale. Un racconto che cattura l’attenzione, fa riflettere e commuovere.
Malik è supportato in questa esperienza da Francesca, l’educatrice che lo ha seguito fin dal suo arrivo sul territorio e che ancora oggi, insieme agli altri operatori dell’accoglienza, ha un rapporto di fiducia e amicizia con lui. Sono tutti presenti, dal vivo oppure seguendo la funzione online, per sostenerlo in un momento in cui ha voluto ricordare e condividere con tante persone un passato difficile e tragico, fatto di paura, perdite e rinunce, ma anche di rinascita e soddisfazioni.
Malik è un musulmano sciita, nel suo Paese fa parte di una minoranza religiosa. Quando gli viene chiesto perché è dovuto scappare, risponde: «Ho lasciato il mio Paese sette anni fa perché ho avuto problemi con i sunniti: noi siamo sciiti e siamo una minoranza. Mio papà ha costruito una scuola per le femmine. All’inizio erano poche, poi anche cinquanta. I sunniti non sono d’accordo che le femmine studino, mentre per mio papà era molto importante. Quando è morto mio padre, mia madre mi ha spinto a continuare la scuola, però i sunniti l’hanno bruciata e hanno più volte tentato di ammazzarmi. Hanno picchiato e colpito tanti sciiti con coltelli e pistole. Per salvarci mio zio ha messo me e mio fratello su un container per farci scappare. Così sono arrivato in Italia».
Malik riporta i dettagli del viaggio che gli ha permesso di arrivare in Italia e salvarsi, ma non senza difficoltà e drammi: «Ho passato 21 giorni dentro un container su una nave. Avevano paura che gli altri mi vedessero e quindi dovevo stare chiuso con solo dei buchi nel container per respirare. Non c’era il bagno, abbiamo creato noi un buco per fare i nostri bisogni, ma potevo uscire a farli solo una volta al giorno. Mangiavo solo un pezzo di pane e ho avuto una bottiglia d’acqua al giorno. Il problema più grosso è che durante questo viaggio ho perso mio fratello e da quel giorno non l’ho mai più sentito».
Anche una volta arrivato in Italia, Malik racconta di essere rimasto spaesato, di aver avuto paura che la polizia lo rimandasse nel suo Paese, dove sarebbe andato incontro a persecuzioni e quasi sicuramente a morte. Racconta di una donna, che lo ha aiutato a prendere il treno per Milano, e di un pakistano che, dopo due notti passate per strada, lo aiuta portandolo allo sportello legale di Villa Amantea, un sabato mattina. Patrizia e Claudia, volontarie storiche, capiscono subito che Malik ha davvero bisogno di protezione internazionale. Di seguito l’associazione chiede l’inserimento nello Sprar di Cesano Boscone presso la Sacra Famiglia, dove lavorava Francesca.
La testimonianza di Malik dimostra quanta forza e disperazione siano necessari per lasciare la propria casa, dando una risposta concreta e forte a chi considera superficialmente la migrazione o la definisce un pericolo; in realtà, molto spesso è davvero l’unica speranza di avere un futuro. La sua, però, è anche la storia di un’accoglienza che funziona, che accompagna ogni immigrato nel percorso d’inserimento sociale e lavorativo, curando le ferite con la vicinanza e l’aiuto quotidiano.
Ciò non significa che in Italia la vita di Malik sia stata felice e senza problemi. La ricerca di lavoro, di un lavoro regolare, è difficile per ragazzi come lui, e così la conquista dell’accettazione da parte della società, non sempre aperta allo sconosciuto. Oggi Malik ha un auto, un lavoro regolare ed è tutor nella comunità di accoglienza per minori stranieri non accompagnati di Associazione Villa Amantea, “Villa Pitagora” a Trezzano sul Naviglio. Qui, in una villa confiscata alla ’ndrangheta e che ospita 6 ragazzi, è di guida ed un esempio per altri ragazzi con una storia simile alla sua.
Trezzano sul Naviglio è un luogo in cui culture diverse convivono serenamente, una comunità aperta, che in questa occasione ha dimostrato tutta la vicinanza e l’accoglienza, ben tradotta nelle parole conclusive di padre Paolo: «Grazie Malik, sei un nostro amico, anche se sei musulmano, di fronte a Dio siamo tutti uguali».