Folla per il tradizionale Pontificale presieduto, nella basilica di Sant’Ambrogio, da monsignor Mario Delpini, che si è detto emozionato per questa sua prima Celebrazione in onore del Copatrono della Diocesi
di Annamaria
BRACCINI
Sembra quasi di vederlo questo Ambrogio, santo e patrono, così severo nelle antiche immagini e, invece, così vicino nelle parole del suo attuale successore alla guida della nostra Chiesa, monsignor Mario Delpini, che presiede il tradizionale Pontificale per la Solennità del 7 dicembre nella Basilica che custodisce le spoglie santambrosiane. Concelebrano la Messa, come sempre gremita di fedeli, l’abate, monsignor Carlo Faccendini, i Canonici del Capitolo di Sant’Ambrogio, del Duomo e altri sacerdoti, presenti anche gli alunni del Biennio teologico del Seminario di Venegono, accompagnati dal rettore, monsignor Michele Di Tolve e dai Superiori.
E, allora, quello di Delpini che si dice emozionato per questo suo primo “Sant’Ambrogio” per e che, per l’occasione siede sulla millenaria Cattedra marmorea di Ambrogio al centro del Coro ligneo dell’abside – è un richiamo insieme affettuoso, con la paternità del Pastore, e chiarissimo. All’indomani del Discorso alla Città, è ancora un rivolgersi a tutti noi, donne e uomini che, ogni giorno, nella grande metropoli del terzo millennio, viviamo con le nostre manìe e convinzioni radicate.
Come non riconoscerci, infatti, in Vittorio, Filomena e Noeto, gli immaginari tre milanesi disegnati simbolicamente dall’Arcivescovo nell’omelia?
Il primo che non si perde in chiacchiere: «Il bisogno preme alle porte, non abbiamo tempo da perdere. Noi qui a Milano siamo gente concreta» e Filomena, appunto, a cui non si può dare torto quando pare dire: «Quello che manca in questa nostra città, attiva fino alla frenesia, efficiente e produttiva, è un po’ di tenerezza».
E, infine, Noeto con la sua razionalità che si fida solo delle scienze esatte perché «tutto il resto è fumo e fantasia. La città funziona, la vita funziona se l’organizzazione è razionalizzata, se i comportamenti sono ragionevoli, se i problemi sono considerati in modo razionale».
Dall’alto, Ambrogio guarda e chiede – con la voce e l’intenzione, come è ovvio, del suo successore di oggi – di cercare il senso vero di tutto questo, nei successi dell’operosità quotidiana, perché la «vita è una vocazione, non una carriera o un’avventura, e la passione a fare bene ha la sua origine nelle impenetrabili ricchezze di Cristo».
Insomma, perché «le opere buone sono molto di più del bilancio positivo dell’azienda, sono collaborazione al progetto eterno di Dio, perché tutti diventino un solo gregge con un solo Pastore».
Perché la tenerezza deve seminare «una speranza più grande, una preghiera che invoca un abbraccio più potente», una sollecitudine che si faccia testimonianza «che tutti sono chiamati in Cristo a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo, a essere partecipi della stessa promessa». Perché «la tenerezza di cui ha bisogno la città non può essere l’emozione di un momento, ma, piuttosto, la comunione che raduna tutti in un solo gregge con un solo Pastore».
E così anche per chi crede solo nel «2+2 che fa 4», la razionalità può e deve andare oltre, aprendosi all’infinito. «La meravigliosa avventura della ragione è chiamata a percorsi più audaci, a pensieri più alti, a una visione più luminosa. Il mistero di Cristo che si rivela non umilia il pensiero, non è fatto per i creduloni, piuttosto per mezzo della Chiesa manifesta ai principati e alle potenze dei cieli, la multiforme sapienza di Dio. Il mistero che da ogni parte ci avvolge è luce, è persuasiva risposta alle domande inquietanti che la sapienza umana e la scienza, che i semplici e gli intellettuali continuano a rivolgere dall’inizio dei tempi sul senso del nascere e del morire, del vivere e del soffrire, della gioia e della speranza. Ascolta la mia voce, Noeto, e spingi il pensiero fino alla verità ultima e bella, fino al Signore Gesù, che è via, verità e vita»
Poi, al termine dell’Eucaristia, la preghiera a Sant’Ambrogio e le intercessioni recitate dall’Arcivescovo, dai Concelebranti e dai seminaristi, nella Cripta, di fronte alle reliquie del Santo e dei martiri Gervaso e Protaso.