Il criminologo Adolfo Ceretti illustra i contenuti del tradizionale appuntamento dedicato alla Mondialità, che si terrà il 12 febbraio in streaming

di Pino Nardi

Adolfo Ceretti
Adolfo Ceretti

«Per forza o per-dono? La complessa via della riconciliazione» è il tema del Convegno Mondialità promosso da Pastorale missionaria, Pastorale migranti e Caritas ambrosiana (vedi qui la locandina). L’appuntamento è per sabato 12 febbraio, dalle 10 alle 12.30, in diretta streaming sul canale YouTube di Caritas ambrosiana e su www.chiesadimilano.it. Porterà il saluto l’Arcivescovo, monsignor Mario Delpini. Ne parliamo con il criminologo Adolfo Ceretti, docente alla Bicocca, uno dei relatori al convegno.

In queste settimane tornano venti di guerra ai confini dell’Ue per la crisi Russia-Ucraina. Parlare di riconciliazione e perdono tra i popoli è utopia o può diventare la strada giusta per costruire la pace?
Per rispondere a una domanda così complessa e indifferibile, provo a ricorrere a un esempio. Penso, naturalmente, alla Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica, voluta da Mandela e Tutu, che operò tra il 1996 e il 2003. In estrema sintesi, la Commissione – nata in alternativa secca al modello del processo penale – ha costituito una zona di discontinuità che ha permesso ai perpetratori e alle vittime degli anni dell’apartheid (che si trovavano a vivere in una condizione di “ebollizione” emotiva) di incontrarsi al margine della violenza e di riscoprire, attraverso una giustizia dell’incontro, un senso di comune appartenenza. Fu così che i membri della Commissione hanno ascoltato le deposizioni, i racconti, le narrazioni, i ricordi, le testimonianze e le confessioni delle migliaia di persone che decisero di fornire il proprio contributo alla ricostruzione di un passato, condividendo faticosamente le loro memorie al fine di sostenere e accompagnare la nascita e il rafforzamento del nuovo Sudafrica democratico.

Come si è arrivati agli Accordi di pace in Colombia dopo anni di sanguinosi conflitti? Com’è attualmente la situazione in quel Paese?
Le Farc, il principale gruppo armato colombiano, combattevano per l’uguaglianza e per la giustizia sociale, per la restituzione delle terre espropriate ai campesinos, per la promozione dello studio e l’estensione del sistema sanitario pubblico gratuito. Il fatto è che le Farc consideravano legittima la violenza, politica e non, per il raggiungimento di quegli ideali. Per valutare la portata e il grado di atrocità del conflitto armato in Colombia occorre pensare che nel solo periodo compreso tra il 1958 e il 2012 sono state registrate più di 8 milioni di vittime, di cui circa 270 mila morti, 47 mila desaparecidos, 24.550 vittime di violenza sessuale e più di 7,2 milioni di sfollati. Il conflitto armato perdurò nel corso dei decenni nonostante vari tentativi di avviare trattative di pace, tutte miseramente fallite. Solo nel 2011, con una società e uno Stato ormai sfiancati da decenni di dissidi violenti, il neo presidente eletto, Juan Manuel Santos, iniziò un nuovo serio dialogo per giungere a una pacificazione, che si concretizzò nel 2015 quando lo stesso presidente e il comandante delle Farc-Ep Timochenko sottoscrissero all’Avana, dove si erano segretamente svolti i tavoli di negoziazione, l’Accordo per la pace, al quale si era giunti dopo la presa di coscienza, da parte dei guerriglieri di quella formazione, che sarebbe stato preferibile trasformarsi in forza politica pacifica, abbandonando la lotta armata e demilitarizzandosi. Oggi, in attuazione di quegli Accordi, la Commissione per la verità e la Giurisdizione per la pace lavorano – in condizioni socio-politiche molto avverse – per dare loro concretezza.

Qualche anno fa lei ha seguito il percorso di incontri tra vittime e responsabili della lotta armata in Italia. Quale lezione trae da quell’esperienza?
Che in ogni angolo del mondo tutti – donne e uomini, vittime e responsabili di fatti atroci – possono, se iniziano a desiderarlo con l’aiuto di terzi imparziali, scongelare le loro memorie e spostare il punto e l’oggetto della loro osservazione, aprendosi così a nuove prospettive nel raccontare a se stessi e agli altri l’attacco subìto al proprio corpo o inferto ai corpi altrui.

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