Redazione

Lo spazio dedicato da tv, radio e giornali alla morte
del tifoso rientra nella logica giornalistica. Più delicato
il discorso relativo al modo in cui sono state raccontate
le violenze degli ultras: tacere non sarebbe stato corretto,
ma parlarne ha posto inevitabilmente sotto i riflettori
i protagonisti di questi atti, e la loro involontaria
esaltazione può provocare pesanti effetti di emulazione

di Marco Deriu
Docente Comunicazioni sociali – Università Cattolica

I media hanno subito reagito ai drammatici eventi di domenica. Una trasmissione scherzosa e scanzonata come Quelli che… il calcio (Rai Due) non è andata in onda per decisione degli autori e della conduttrice Simona Ventura. Altri programmi sono stati pesantemente occupati dalla cronaca dei fatti. Si sono susseguiti “speciali” sulla morte del giovane e sugli altri episodi di violenza. Nei notiziari televisivi e sulle pagine dei giornali hanno avuto ampio risalto le ricostruzioni di quanto avvenuto all’autogrill, ma anche le cronache delle pessime gesta dei gruppi di esagitati che si sono scatenati.

Lo spazio dedicato alla morte del tifoso rientra nella logica giornalistica e si può ricondurre alla normale e quotidiana attività delle testate informative. In troppi casi, però, si è assistito all’ennesima raccolta disordinata ed eccessiva di dichiarazioni, opinioni, commenti e critiche, che hanno finito per provocare una sorta di discussione collettiva a voce alta in cui si non sempre si è riusciti a distinguere i contenuti degni di nota dalle chiacchiere inutili.

L’aspetto più delicato del discorso è quello che riguarda il modo in cui sono state raccontate le gesta delinquenziali di gruppi di dissennati che si presentano come tifosi e che sotto questa falsa identità compiono sistematicamente atti di violenza gratuita e vigliacca.

Fatto salvo il diritto-dovere di cronaca dei giornalisti, che impone di raccontare anche le cattive notizie, resta aperto il nodo della quantità e della qualità di queste notizie. Tacere non sarebbe corretto, rischierebbe addirittura di qualificarsi come una sorta di censura. Ma parlare delle azioni violente finisce comunque per mettere sotto i riflettori i protagonisti. I quali, data la loro evidente incoscienza, probabilmente si sentono gratificati per l’attenzione ricevuta in questi “momenti di gloria”. E l’esaltazione (anche inconsapevole) di questi fattacci da parte dei mezzi di comunicazione può provocare pesanti effetti di emulazione.

Bisogna riflettere sul modo in cui si raccontano fatti simili, a partire dal linguaggio che si utilizza. Perché definire semplicemente «episodi di violenza» o «vandalismi» le azioni che possono essere qualificate a pieno titolo come atti di vera e propria delinquenza, per di più organizzata? Perché inserire a tutta pagina le fotografie a colori di gruppi di scatenati che devastano automobili, lanciano bottiglie incendiarie, brandiscono armi di vario genere? Perché soffermarsi a descrivere per filo e per segno tutti i particolari della strategia di guerriglia di questi decerebrati, facendone quasi degli eroi (pur negativi)?

Nel racconto della violenza – e della delinquenza – sarebbe opportuno rinunciare definitivamente a quel sensazionalismo e a quei registri emotivi che magari assicurano maggiori ascolti o vendite più elevate, ma che possono provocare effetti disastrosi sul piano sociale. In certi casi, addirittura, sarebbe meglio tacere.

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