Nella festa liturgica di San Giuseppe l'Arcivescovo ha presieduto una celebrazione eucaristica nell'ospedale a lui intitolato: «Non è più il tempo per logorarsi nelle incertezze, ciascuno di noi può ascoltare l’angelo di Dio che sveglia dal sonno»
di Annamaria
Braccini
La storia dei credenti che è storia di partenze: da Abramo, chiamato da Dio e partito per fede senza sapere dove andava, a Giuseppe, tornato nella terra dei Padri. Partenze fisiche che sono anche spirituali, perché «partire è una decisione prima che uno spostamento», tanto che «la fede spesso è la decisione di una conversione che introduce in una nuova condizione spirituale, e non c’è vita di fede che non sia segnata dalla decisione di andare perché è ora».
A dirlo è l’Arcivescovo che, nel giorno della solennità di San Giuseppe, presiede la celebrazione nella chiesa dell’Ospedale omonimo, polo universitario dell’Università degli Studi di Milano, facente parte del Gruppo Multimedica. Tra i sacerdoti concelebranti, il parroco della vicina parrocchia di San Vittore don Vittorio De Paoli e il cappellano della Clinica don Carlo Nazzari, che porge il saluto di benvenuto: «La sua parola ci aiuti e ci sproni a impegnarci con rinnovate energie nel nostro lavoro. Vogliamo pregare per chi da più di un anno lotta e per tutti coloro che ci hanno lasciato per la pandemia. Il nostro compito si può riassumere in una parola, custodire: ciò che conta non è fare molto, ma mettere molto amore in quello che si fa, come diceva Santa Teresa di Calcutta».
A tutti – il direttore sanitario della struttura Carmen Sommese, rappresentanti della proprietà, medici, personale, volontari – si rivolge l’omelia dell’Arcivescovo, centrata su quel «partire si deve», come fecero Abramo e Giuseppe, anche se ci sono «obiezioni, resistenze, scuse per lasciar cadere l’invito dell’angelo di Dio, perché, magari, si è vecchi o troppo schiavi delle abitudini consolidate».
«Ogni stagione della vita, ogni uomo e donna – scandisce – riceve la visita degli angeli. Non dire: “non so dove andare”, perché adesso è il momento e la parola che chiama è lampada per questo passo di oggi. La paura, la pigrizia, gli orari, che sono abitudini rassicuranti, rischiano di diventare una zavorra se trattengono dall’obbedienza alla vocazione. Invece che rendere serena la vita la spengono, invece di aprire all’oltre sono come la prigione, il nido dal quale non si decide mai di prendere il volo».
Al contrario, il momento di andare – suggerisce ancora l’Arcivescovo – «è pieno di fascino e di promessa», perché «ciascuno ha incontrato, incontra e incontrerà questo angelo che viene a visitarci e che ci parla». Con quella parola di Dio, appunto, che «chiama a uscire dalla tristezza, dal ripiegamento su se stessi, per aprirci al servizio della carità e alla dedizione dell’amore». Chiama a uscire da uno stato d’animo che paralizza, superando «il risentimento, la rabbia; chiama a uscire di casa» quando «non è più il tempo di essere solo un figlio, una figlia, ma di diventare padre, madre, tempo di dare alla vita i tratti di una definitività».
Come a dire che, mai come in questo momento, «non è più il tempo per logorarsi nelle incertezze, per invecchiare nei “se” e nei “ma”», ma di vivere «la promessa persuasiva e rassicurante che edifica la comunione e la vita nuova nella relazione con Dio che non viene mai meno»
Chiara l’indicazione: «Cambieranno gli scenari, i contesti, le responsabilità, ci saranno stagioni di grande entusiasmo e quelle come queste in cui si respira un clima depresso, deprimente e una logorante incertezza, ma ciò che rimane è “ora, partiamo”. Nella vita personale, professionale, quando si deve prendere una decisione, un impegno per la vita, quando ci sono possibilità, proposte, tentazioni; quando nelle relazioni ci sono situazioni problematiche con persone che non si parlano o si sfidano quotidianamente, viene il momento di riconciliarci e di dire “ora, andiamo”»
«In questo momento, ciascuno di noi percepisce che ci sono delle scelte da fare. Anche per i malati c’è la possibilità di interpretare la malattia, non come umiliazione della vita, ma come occasione spirituale. Perfino la morte – interpretata nella mentalità contemporanea come finire nel nulla – può essere letta come l’invito dell’angelo a superare la porta che si apre verso la gioia senza fine. Ciascuno di noi può ascoltare l’angelo di Dio che sveglia dal sonno».
A conclusione, ancora un pensiero da parte dell’Arcivescovo. «Celebrare in un luogo di cura, di ricerca, di esercizio delle professioni sanitarie, mi pare molto significativo per dire il mio incoraggiamento a voi che qui operate. Al personale sanitario che sappiamo è sotto pressione e per tutta l’abnegazione che conosco, voglio dire il mio apprezzamento. Desidero fare gli auguri a tutti i papà presenti per la loro responsabilità e rivolgere un pensiero a tutti i malati. Voi tutti siete benedetti da Dio siate, quindi, benedizione per chi vi incontra». Infine, la visita ai degenti nei reparti della “San Giuseppe” che conta 332 posti-letto.