L’Arcivescovo ha presieduto, in un Duomo gremito, la Celebrazione nella Notte di Natale, preceduta dalla Veglia di preghiera. «La venuta di Gesù vince la tristezza dell’umanità»

di Annamaria Braccini

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L'Arcivescovo porta tra le mani la statua del Dio Bambino

«La benedizione del Natale significa la promessa di una gioia che può sfidare tutte le tristezze, il dono di una pace che può superare le guerre, di una fraternità nuova costruita sulla vita di Dio». È la Celebrazione presieduta dall’Arcivescovo nella Notte di Natale, dove tutto parla della nascita del Signore: la luce che inonda la Cattedrale e l’accensione della stella, i moltissimi fedeli presenti, i canti solenni, la Parola di Dio, le Letture, tra le quali la tradizionale, ambrosiana, “Esposizione del Vangelo secondo Luca” di sant’Ambrogio, proclamata nella Veglia di preghiera che precede la Messa. Nella cui processione iniziale il vescovo Mario – accanto a lui concelebrano i Canonici del Capitolo metropolitano – porta tra le mani l’artistica raffigurazione lignea del Dio Bambino che depone nella “culla”, posta ai piedi dell’altare maggiore. “La luce che splenderà oggi su noi, poiché per noi è nato il Signore”, come dice il canto e suggeriscono la Kalenda natalizia e il brano evangelico del Prologo del Vangelo di Giovanni, “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”.

La luce di Gesù che vince le tenebre della tristezza

Quella “luce” che è l’antidoto alla tristezza, per la quale l’umanità da secoli (e, forse, mai come oggi) si affanna, invece, a trovare ragioni e soluzioni inutili: dai sensi di colpa, ai farmaci, dall’allegria a tutti costi alla devozione che pretende risposte.

«Gli uomini e le donne malati di tristezza spendono un capitale in medicine e visite specialistiche: è vero, le medicine attenuano il dolore ma la tristezza non guarisce», scandisce, infatti, il vescovo Mario (guarda il video dell’omelia). «Uomini e donne si affollano là dove divertimenti e piaceri, euforia ed ebbrezza sono programmati con molta professionalità e, ovviamente, offerti al giusto prezzo». E, poi, appunto il rifugio nella devozione di chi «però, si rende conto che neppure nei templi e nelle penitenze abita una letizia duratura, finendo per immaginare un dio incontentabile» o di chi crede unicamente nella scienza come «gli uomini e le donne che si sentono vittime delle cose, sperano in un ricostituente efficace, passando anche momenti di benessere, poi però la tristezza ritorna, forse anche peggio di prima».

Di fronte a questa umanità desolante e alla tristezza dilagante, è allora il Figlio unigenito che chiede al Padre di essere mandato, di farsi carne e di venire ad abitare in mezzo a noi, nella convinzione che «la tristezza non si guarisce con rimedi e illusioni, con scienze o potenze, ma che solo portando insieme il peso della vita si può alleviare la tristezza». Infatti, «solo accogliendo il dono della vita divina, si può sapere qualche cosa della gioia; solo chi passa attraverso la morte può estirpare la radice di ogni tristezza», scandisce l’Arcivescovo che dà voce, al termine della sua omelia, a Gesù stesso, al Figlio che diventa uno di noi.


«Sarò dunque uomo per condividere ogni dolore, sarò dunque fratello; sarò il seme che muore per insegnare la via della vita che porta a te, Padre». Così, nel Natale che «è la vocazione a camminare sulla strada percorsa da Gesù, l’uomo che rende possibile all’umanità vivere secondo l’altezza della sua vocazione alla gioia», è vinta la tristezza «non come una malattia che è guarita, ma come una strada da percorrere, dalle tenebre alla luce».

 

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