Messa prenatalizia con l’Arcivescovo alla Mangiagalli: di fronte a sofferenze «censurate per sostenere un’ideologia», c’è la certezza che «Dio ascolta i lamenti, si fa carico del dolore condividendolo con la sua incarnazione e predispone all’accoglienza nella sua gioia»

di Annamaria BRACCINI

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Come ormai tradizione, nei giorni immediatamente precedenti al Natale e per ricordare la Solennità dei Santi Innocenti Martiri (28 dicembre), l’Arcivescovo visita la Fondazione Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Irccs di cui fa parte la Clinica Mangiagalli. Accolto e accompagnato dai Cappellani, dal presidente della Fondazione Marco Giachetti, da medici e personale, si reca in alcuni reparti, intrattenendosi al Padiglione Litta della Dialisi, al “Cesarina Riva” (urologia e trapianti), al “Croff” (nefrologia e trapianti) e, infine, alla Clinica De Marchi, presso le camere della dialisi pediatrica: 940 i posti-letto, in totale, del Policlicnico, un terzo dei quali è destinato ai reparti materni-infantili.

Poi, nella chiesa interna alla struttura – intitolata appunto ai Santi Innocenti -, presiede la celebrazione eucaristica, concelebrata dai cappellani don Giuseppe Scalvini, don Norberto Gamba, don Marco Gianola (che risiede stabilmente alla Mangiagalli, dove nasce un bimbo circa ogni ora, ogni giorno dell’anno) e don Paolo Fontana, responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale della Salute. «Lei è sempre a casa sua in Diocesi, ma, qui, nella sua parrocchia, è ancora più “a casa”», lo saluta don Scalvini, alludendo al fatto che gli Arcivescovi di Milano sono i parroci della chiesa di Santa Maria Annunciata, la parrocchia della Ca’ Granda.

L’omelia dell’Arcivescovo

Dal riferimento al II capitolo del Vangelo di Matteo, in cui viene narrata la strage egli Innocenti, con il lamento di Rachele per i figli “che non sono più”, si avvia l’omelia dell’Arcivescovo: «Un lamento è stato udito: ecco è facile che, oggi, il lamento risuoni un po’ dappertutto. Nella conversazione quotidiana tanta gente si lamenta, c’è sempre qualcosa da dire di male, di critico, di insoddisfatto che viene riversato sulla città. Un lamento che si sente anche sui mezzi della comunicazione e che diventa sfogo, rabbia e parola aggressiva. Mi pare che ci sono tante buone ragioni per lamentarsi, ma anche tante sbagliate: c’è un lamentarsi che è frutto di una pretesa, di un’anima amareggiata più che di una situazione obiettivamente ingiusta o disagiata».

Ci sono, però, anche «lamenti che sono proibiti, pianti che devono essere consumati di nascosto nella città che, anche nella sua bellezza, è ingrigita, resa opaca, sgradevole dal lamento della vita ordinaria. Proibiti dal politicamente corretto, perché bisogna tutti adeguarsi ai luoghi comuni e alle idee correnti. Tutti possono lamentarsi eccetto le donne che desiderano un bambino e non riescono ad averlo». Un lamento che nella società contemporanea, seppure è il frutto di una incompiutezza di desiderio legittimo è, talvolta censurato «perché sembra che generare figli sia diventata una specie di imprudenza, di spesa per la società, un vincolo alla libertà».

«È proibito lamentarsi anche alle madri che hanno rinunciato alla maternità con l’interruzione volontaria della gravidanza che sembra un diritto da rivendicare. Quindi occorre nascondere il senso di colpa che questa scelta drammatica, qualche volta, e, qualche altra, assunta con troppo sbrigativa superficialità, porta con sé. Come si fa a lamentarsi di aver esercitato un diritto? È proibito dire quale dramma e senso di colpa può essere abituale per chi ha fatto questa scelta. Ci sono lamenti che quasi vengono applauditi quando diventano proteste, e lamenti che sono rimproverati quando vogliono esporsi in pubblico per chiedere di ripensare a questo capitolo complicato… Ma in questo luogo così significativo per tale problematica, ci viene detto che Dio ascolta il grido e il lamento anche se gli uomini sono portati a una sorta di censura di alcune sofferenze per sostenere un’ideologia. Noi siamo qui a celebrare l’Eucaristia perché vogliamo professare la nostra fede. C’è il dolore, c’è il dolore innocente e quello che non si può dire, ma c’è Dio per soccorrere».

Ma come? Cosa fa il Signore ascoltando il lamento di chi ha figli che non sono più o che non sono mai stati? «Anzitutto se ne fa carico condividendo con la sua incarnazione il dolore, come uomo generato dal grembo di una ragazza, per dirci quanto sia infondata la nostra fantasticheria di un Dio lontano, insensibile ai drammi della storia. La condivisione è lasciarsi ferire in profondità, perché Dio, amico della vita, sente ripugnanza per la morte e, in Gesù, si commuove profondamente. Il grido delle madri lo fa piangere come di fronte alla tomba di Lazzaro».

E poi abbiamo la promessa di consolazione «che è una carezza che arriva nel cuore ferito, che lo risveglia alla speranza; prossimità che permette di considerare anche il proprio dolore in una nuova prospettiva. Il soffrire viene, così, trasfigurato, assumendo l’immagine delle doglie parto più che del gemito del morente».

Infine, la misericordia di Dio predispone all’accoglienza nella sua gioia, «nella Sua festa eterna, come un padre che abbraccia tutti i suoi figli che tornano a casa… «Se siamo figli, siamo anche eredi, invitati alla vita eterna. Noi vogliamo essere vicini a coloro che soffrono, che piangono e si lamentano, non per abitudine al malumore, ma per ferite profonde che interrogano Dio e provocano la vicinanza e la solidarietà degli altri. Raccogliamo tutto questo pianto e chiediamo che Dio, come sempre fa, ascolti e, quindi condivida, consoli e ricolmi di quella gioia che è il Suo segreto».  

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