Testimone al Festival milanese, è fuggita da bambina dalla guerra in Congo con l’aiuto di missionari italiani; laureatasi in medicina nel nostro Paese, è poi tornata più volte in Africa per esperienze missionarie

di Annamaria Braccini

Kindi Taila (Agenzia Fotogramma)
Kindi Taila (Agenzia Fotogramma)

Una vicenda personale che è una «storia di missione dentro la missione». Così Kindi Taila, 46 anni, da più di un trentennio in Italia, medico a Modena e testimonial al Festival della Missione, definisce la sua esperienza.

Cosa significa l’espressione «missione dentro la missione»?
Significa che la mia vita è intrecciata indissolubilmente alla missione, addirittura da prima che nascessi. Infatti mia madre, originaria della Repubblica Democratica del Congo, aveva vinto una borsa di studio come studentessa meritevole, offerta da alcuni missionari ai quali era stata affidata perché ricevesse un’istruzione. Dopo aver finito di studiare è rientrata in Congo, dove siamo nate io e mia sorella. Le vicissitudini della vita hanno fatto sì che entrambi i miei genitori venissero meno: allora altre missionarie – che mia madre aveva conosciuto mentre era in Italia e con le quali era rimasta in amicizia – hanno offerto a me e a mia sorella una borsa di studio. Sono arrivata in Italia giovanissima, scappando dalla terribile guerra appena iniziata in Congo e poi protrattasi per anni. Ho quindi potuto accedere anch’io a un’istruzione, diventare medico e, a mia volta, fare un’esperienza missionaria. La mia è una storia di fiducia, di donne che, da missione a missione, continuano ad andare avanti. Spero che anche mio figlio un giorno mi dirà: «Mamma, voglio partire per la missione».

Quando è tornata in Africa dopo essere diventata medico, dove ha svolto la sua attività?
Dapprima sono stata in Zimbabwe, successivamente in Mozambico e in Congo, anche se in missioni non formali. Ho avuto così la possibilità di aiutare le persone, donando ciò che avevo appreso in Italia. Ogni volta che posso tornare in Congo, per esempio, porto con me anche campioni di farmaci o occhiali, che raccolgo presso i colleghi, offrendo anche consulenze, perché i modi per fare del bene sono tanti.

Lei ha voluto diventare ginecologa: è un modo per aiutare la consapevolezza delle donne?
Certo e, per questo, ho anche fondato un’associazione, affinché venga rispettato il diritto delle donne di accedere a un’istruzione di qualità, di avere delle cure e un’assistenza che garantiscano non solo la sopravvivenza, ma anche uno status di benessere. Per me, che sono stata così fortunata, penso che sia un dovere occuparmi della salute delle donne e dei loro diritti. L’associazione si chiama “Deade”, ha sede a Modena, ma è aperta a chiunque, affinché tutto questo sia rispettato e, laddove i diritti non esistono, si possano sensibilizzare la popolazione e le autorità. L’associazione ha lo scopo anche di ricordare in conflitti in Congo, che sono riemersi e spesso sono dimenticati. Penso sempre che, quando sono tornata dopo tanti anni nel mio Paese di origine, non ho trovato più molti miei compagni di classe, perché erano morti durante la guerra: essere spaesati in quella che si considera la propria terra è terribile.

Quale sarà il tema della sua testimonianza al Festival, nella tavola rotonda «MissioToday» di sabato 1 ottobre?
Sicuramente porterò quella che è stata la mia esperienza in Zimbabwe, quando ero ancora una studentessa in Medicina e, andando a trovare delle missionarie, assistetti a un parto. Da lì ha avuto origine tutto ciò che sono oggi. Attualmente lavoro in un consultorio e mi occupo delle donne in stato di gravidanza e delle adolescenti. Anche questo è un modo di restituire qualcosa all’Italia, il Paese che mi ospita e di cui sono cittadina. Sono convinta che il lavoro di ciascuno di noi può essere un’occasione per fare della vita un dono di bene. Il luogo della missione non importa, ciò che vale è scegliere di viverla e farlo seriamente, con fede e competenza.

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