Nei caldi anni Settanta don Roberto Fiorini si fece assumere all’ospedale psichiatrico di Mantova, vivendo in prima linea il Concilio Vaticano II
di Claudio
Urbano
Su Whatsapp don Roberto invia una classica foto «da prete», dove veste i paramenti liturgici: «visto che si parlava di lavoro, faccio vedere l’altro lato della medaglia». Classe 1937, giovane sacerdote negli anni del Concilio, don Roberto Fiorini è stato (anche) un «prete operaio». In realtà non è mai stato in fabbrica, anche se ha provato ad essere assunto. Ma la sua esperienza precedente come assistente provinciale delle Acli di Mantova, dalla parte quindi dei diritti dei lavoratori, avevano fatto sì che vedesse respinta la sua candidatura.
Conviene quindi tornare brevemente a quegli anni, per ricordare il contesto nel quale maturò la sua scelta. «Come assistente delle Acli di Mantova – ricorda – avevo conosciuto il mondo del lavoro, lo sfruttamento e il lavoro minorile». Era, quello, il periodo appena successivo al Concilio, in cui la Chiesa intendeva manifestare concretamente la vicinanza ai lavoratori, pur nelle contrapposizioni del quadro politico e ideologico di allora. La strada era certamente stretta, tra l’urgenza di dare voce alle istanze sociali, da una parte, e l’attenzione, dall’altra, a non appiattire solo su di esse l’annuncio del Vangelo.
La svolta e la rottura
Si comprende dunque il tono accorato di papa Paolo VI all’assemblea degli assistenti delle Acli del 1968: «Ebbene, cari confratelli, qualunque sia l’esperienza desunta dal ministero che vi è stato affidato, non lo lasciate, non lo abbandonate, posponendolo ad altro più facile e più fecondo di risultati e di applausi». «Quelle parole mi colpirono», confida don Roberto. Poi arrivò la «svolta socialista» delle Acli e nel 1971 la rottura con la gerarchia ecclesiastica. Ma fu anche l’anno della Octogesima adveniens, in cui – sottolinea don Roberto – «Paolo VI scrive che la Chiesa manda i preti tra i lavoratori», per mostrare, «condividendo integralmente la condizione operaia», la sollecitudine della Chiesa.
Questi dunque gli snodi decisivi per la futura esperienza di don Roberto, che nel 1973 viene assunto nell’ospedale psichiatrico della sua città. «Mi iscrissi al corso organizzato dalle Acli per diventare infermiere generico: pensavo di andare a pelare le patate – sintetizza – ma poi mi assegnarono anche lavori di responsabilità». Erano gli anni della riforma Basaglia, dunque si avviava la chiusura degli ospedali psichiatrici; a don Roberto venne affidata l’organizzazione dell’assistenza sanitaria sul territorio. Delegato sindacale, protestò insieme ai colleghi perché tra le diverse sedi i lavoratori non dovessero spostarsi con mezzi propri. «Così rimasi “fermo” nel mio ufficio per tre mesi – ricorda – in una sorta di punizione, tanto che l’assessore mi invitava a “scegliere” un altro posto di lavoro. Ma io sono rimasto», rimarca il sacerdote.
«Non era un’avventura»
Emergono le motivazioni profonde della sua scelta, fedele alla coerenza tra Parola predicata e testimonianza concreta. «Non sono andato a fare un’avventura: alla base c’era il sentirsi chiamato a seguire una strada, ed anche, dunque, a rischiare la pelle su questa strada». Ovvero a non tirarsi indietro rispetto a nessuna dinamica del mondo del lavoro. Così come, per lui che continuava naturalmente a celebrare la Messa ogni giorno e la cui identità di sacerdote non era certo nascosta, a restare in silenzio «quando si parlava di cose religiose ma il discorso restava in superficie e non c’era la possibilità di portarlo sul piano del senso della vita, quello che noi troviamo nei vangeli». D’altra parte don Roberto sottolinea che «la diffusività intrinseca della Parola viene incarnata anche nei comportamenti». E che dunque «un ambiente totalmente laico non è per sé stesso negativo solo perché lì non si trova un segno della Chiesa. C’è invece – sottolinea – una presenza testimoniale che, senza gridare tanto, cerca di vivere il Vangelo in cui si crede».
Don Roberto si richiama all’esempio delle parabole: «Quando Gesù parla del Regno non lo descrive in termini religiosi, ma utilizza immagini della vita quotidiana e del lavoro: la semina, la crescita, la zizzania, la pecora perduta. Sono tutti gesti – osserva – che noi definiamo laici, cioè legati alla vita». E chiosa: «Gesù stesso veniva chiamato il figlio del carpentiere; chi di noi, conoscendo quale sarebbe stato il suo magistero, lo avrebbe lasciato per trent’anni a Nazareth a fare il falegname? Se Gesù fa riferimento a cose quotidiane vuol dire – sottolinea don Roberto – che ciò che facciamo nella vita può evocare, anche senza nominarlo, il Regno. Così io ho pensato che nel lavoro laico, da credente, potevo evocare la dinamica del Regno».
Una prospettiva che può valere anche oggi? «Ormai sono in pensione e il mondo del lavoro è cambiato. Ma – sottolinea don Roberto – i nostri anni di lavoro ci hanno lasciato una sensibilità, che può essere trasmessa anche alle nuove “nidiate” di preti».
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