Redazione
Ritrovarsi disoccupati o precari all’età di 45 anni, significa mettere in crisi la famiglia e ogni prospettiva di serenità futura. Nella Provincia di Milano il 50% di coloro che si recano agli sportelli dei Centri per l’impiego sono circa 20 mila tra uomini e donne.
di Luisa Bove
Un manifesto curioso annuncia la Giornata della solidarietà dal titolo “La precarietà in età adulta” che si celebra in diocesi domenica 11 febbraio. Ma quello che più colpisce è l’immagine raffigurata: tante tessere del Domino che rappresentano ognuna un lavoratore con il chiaro rimando all’“effetto domino”, cioè della caduta a catena di tutti. È questo ciò che sta accadendo nel mondo del lavoro? Forse la situazione non è così drammatica, ma certo non mancano le preoccupazioni, soprattutto per alcune categorie di persone e lavoratori occupati in determinati settori.
Quale sarà il tema del convegno in occasione della Giornata della solidarietà?
Quest’anno parleremo della precarietà in età adulta, perché di solito si enfatizza quella dei giovani, che hanno il problema di un progetto di vita. A vent’anni un po’ di precarietà può far bene, aiuta a guardare il mondo e la realtà. Quando poi arriva a 25-27 anni i giovani iniziano a preoccuparsi, anche se spesso hanno alle spalle una famiglia che li sostiene.
Diversa è la situazione degli over 45…
Èil problema di chi la famiglia l’ha già costituita e ha una stabilità di vita. Spesso si tratta di impiegati e dirigenti che, da una parte hanno settorializzato il loro lavoro, ma dall’altra hanno grande competenza. Questi lavoratori rischiano di non essere più motivati, di non avere incentivi e di perdere entusiasmo…
Ma cosa succede esattamente?
Nelle aziende gli over 45 iniziano a diventare un peso o così almeno sono considerati, si dimentica la loro formazione e professionalità, poi vengono sostituiti da altri. Questi lavoratori, finché riescono a passare da un’azienda all’altra trovano un posto, ma quando restano disoccupati o in mobilità, sia perché la ditta chiude sia perché ristruttura o si delocalizza, non vengono più assunti da nessuno e fanno al massimo qualche consulenza. Iniziano così le gravi difficoltà.
E la ricaduta più pesante è sulla famiglia…
Certo. Infatti in famiglia di solito lavorano in due, ma quando c’è un solo reddito – a meno che non sia molto alto – è facile scendere sotto la soglia di povertà. Spesso ci sono ancora i figli che studiano e c’è il mutuo della casa da pagare… E la situazione diventa drammatica, anche dal punto di vista psicologico diventa pesante: all’inizio nei confronti del marito c’è comprensione, poi scatta l’irritazione. Inizia a sentirsi dire: “Possibile che non trovi lavoro?”, “Forse non ti dai da fare”… e scattano i malumori e tensioni gravi, dettati dall’insicurezza.
La diocesi di fronte a queste situazioni non resta indifferente e rilancia il Fondo di solidarietà.
Con il Fondo si sono sempre aiutate le famiglie in difficoltà, anche con borse lavoro, per rimettere in “circolazione” lavoratori che avevano perso il posto. Si tratta di persone disamorate dal lavoro, rassegnate, ma poi si riesce a stimolarli offrendo l’opportunità di frequentare un corso di sei mesi (con una spesa di 400 euro) che gli permette di reinserirsi in un circuito.
E a chi va ancora il sostegno?
L’altro sostegno va alle cooperative sociali, perché hanno sempre svolto un bel lavoro e adesso rischiano di “perdere colpi”. Non si tiene conto per esempio del reinserimento di persone disabili. Mettere al ribasso le cooperative significa “strozzarle” e obbligare le persone che non sono all’altezza di mantenere particolari ritmi di lavoro di abbandonarlo. Oggi c’è un grande disagio e poca attenzione a queste problematiche. E invece occorre aiutare queste categorie deboli.