Presiedendo, in un Duomo gremito, la Celebrazione per le Ordinazioni diaconali, l’arcivescovo Delpini ha chiesto ai diaconi di essere annunciatori del segreto della vera festa
di Annamaria
BRACCINI
«Abbiate compassione dell’umanità desolata, che vive lontano da Dio, dell’umanità gaudente, dell’umanità arrabbiata».
È la solenne Celebrazione eucaristica in cui l’arcivescovo Delpini, per l’imposizione delle sue mani e la preghiera, conferisce le Ordinazioni diaconali a coloro che iniziano l’ultimo tratto di cammino verso il sacerdozio.
Trenta i candidati, 23 i diocesani, provenienti dal Seminario Arcivescovile di Venegono, e 7 che si sono formati a Monza nel Seminario Teologico Internazionale del Pontificio Istituto delle Missioni Estere. Dopo la recita dell’Ora Terza, con il Rito di ammissione agli Ordini Sacri di 2 candidati al Diaconato permanente, entrambi uxorati, e di 15 ammittendi al Diaconato e al Presbiterato (normalmente tale Rito avviene del contesto del Pontificale dell’8 settembre), prende avvio la Messa in cui la presentazione all’Arcivescovo, l “Eccomi” e il “Sì, lo voglio” definiscono gli impegni degli eletti al ministero diaconale, di età compresa fra i 24 e i 45 anni con, alle spalle, esperienze e storie diverse.
C’è chi voleva fare il prete fin da bambino, ma si è deciso solo negli anni dell’Università, chi ha trovato la sua strada mentre già svolgeva la professione di ingegnere o di agronomo, chi faceva l’architetto e chi l’avvocato. Insomma, una poliedricità di carismi e di itinerari, che paiono confluire nel colpo d’occhio magnifico di una Cattedrale gremita con i candidati il cui numero fa sì che, in altare maggiore, si prostrino per le Litanie dei Santi su due file.
E l’emozione, allora, è palpabile tra le navate, dove ci sono i parenti, gli amici degli Ordinandi, i seminaristi, tanti preti, e, in altare maggiore, i Vescovi ausiliari, i Vicari episcopali di Zona e di Settore, il Capitolo Metropolitano e i Superiori del Seminario, con il rettore, monsignor Michele Di Tolve.
L’omelia dell’Arcivescovo
Dal brano del Vangelo scelto dai Diaconi, quello del Padre misericordioso, da cui i candidati hanno anche tratto il loro motto, si avvia la riflessione di monsignor Delpini, rivolta a candidati che, avendo scelto di diventare servi del Signore, vanno festeggiati – giustamente -, ma che, soprattutto, devono loro mostrare come portare la festa del Padre al mondo.
Il richiamo è anche per le nostre comunità che «forse contagiate dallo spirito mondano, talora pongono un’enfasi sproporzionata sul percorso che aspetta i ministri ordinati come se avessero rinunciato a chi sa che cosa e dicono: “Che coraggio! Aveva un lavoro, aveva una prospettiva promettente, aveva delle possibilità affascinanti. Ha lasciato tutto per dedicarsi alla missione”. E per questo mettono il diacono al centro della festa».
L’invito è agli ordinandi stessi a non credersi il centro della casa, della comunità, ma annunciatori di festa.
«Avendo scelto di essere diaconi quindi servi, la prima parola che essi dicono alla comunità diocesana è: non fate festa per noi, non metteteci al centro dell’attenzione, non esponeteci alla tentazione di montarci la testa. Non siamo noi i festeggiati, noi siamo solo dei servi alla festa del Padre che accoglie il figlio che era perduto, noi che siamo incaricati di rendere festosa l’umanità che si è rovinata, per restituire ai suoi figli la loro dignità e renderli partecipi dei beni della sua casa».
Insomma, servi che si sentono coinvolti nella gioia del Padre, che ne condividono i sentimenti, che «si rallegrano di una vita salvata, perché hanno condiviso il dolore del Padre per una vita che sembrava perduta», scandisce Delpini.
Un sentimento, quindi, da condividere e che si fa compassione nel suo significato etimologico: «Abbiate compassione per quelli che hanno perso la strada di casa, per chi ha perso le sue cose e infine corre il rischio di perdere se stesso. Abbiate compassione dell’umanità desolata, che vive lontano da Dio, dell’umanità gaudente che vive lontano da Dio, dell’umanità arrabbiata che vive lontano da Dio e si immagina un Dio che vuole trattare come servi quelli che sono i suoi figli. Abbiate compassione e guardate attorno, a tutta l’umanità».
Stringente il monito dell’Arcivescobo alla sua prima Ordinazione da lui presieduta: «Fate festa per ogni vita salvata. Fate festa, non calcoli, non solo programmi e statistiche, non solo appelli e denunce».
Il pensiero torna alla pagina evangelica per un terzo auspicio e monito: saper indicare al mondo, che sembra averlo perduto, il senso vero della «gioia del padre che si manifesta nella festa grandiosa: il vestito più bello, l’anello, il vitello più grasso. Non è l’ostentazione dello sperpero, piuttosto è l’arte di fare festa. Indicatelo a una società che sembra aver dimenticato il segreto della festa».
«L’abito più bello, l’anello, i sandali ai piedi, il vitello grasso contribuiscono a restituire dignità al figlio rovinato. In questa nostra città della moda si deve forse ricordare che l’abito più bello non è quello più costoso o più strano o più seducente, ma è quello che meglio custodisce la dignità della persona e l’anello al dito non è l’ostentazione della ricchezza, ma il segno della nobiltà dell’essere figlio del Padre e il vitello più grasso non è l’esagerazione dell’ingordigia, ma la possibilità di ospitare molti intorno alla mensa.
imparate e custodite l’arte di fare festa, cioè la cura per la dignità di ogni persona, anche di chi torna a casa con i vestiti logorati dalla vita sbagliata e con i piedi nudi per un troppo lungo e sconclusionato andare».
Poi, le Litanie dei Santi, l’imposizione delle mani e la preghiera di Ordinazione, nel silenzio della Cattedrale, la vestizione degli abiti diaconali, la consegna del Libro dei Vangeli e lo scambio della pace, accompagnato dal canto dei futuri preti 2018 – diventeranno tali il 9 giugno dell’anno prossimo –, che dura parecchi minuti.
E, prima della benedizione, ancora un pensiero di monsignor Delpini. «Mi commuovo di più oggi in Duomo che domenica scorsa (il giorno del suo ingresso solenne) perché che ci siano delle persone, libere, adulte, consapevoli, che si fanno avanti e dicono la loro decisione definitiva di servire la Chiesa, la gente e il Signore mi sembra persino una cosa più bella e più grande che fare l’Arcivescovo di Milano».
Alla fine, il lungo applauso che accompagna gli ormai Diaconi tra le navate e la gioia contagiosa della gente fuori dal Duomo, sono quasi il simbolo vivo del motto da loro scelto con il versetto di Luca 15, 24 – “E cominciarono a far festa” – e dell’immagine che accompagna tali parole. L’opera di Arcabas, “Trio d’Anges” con la sinfonia degli angeli musicanti, appunto, in festa per il Signore.