Illustrata in Cattolica una ricerca che ha indagato le relazioni di comunità nell’era digitale prima e dopo l’isolamento dovuto al Covid. Monsignor Bressan: «Uno stimolo a vivere la trasformazione non come una chiusura, ma come una dinamica generativa»

di Annamaria BRACCINI

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I relatori del convegno

«Generare relazioni di comunità nell’era digitale. La sfida delle parrocchie italiane prima e dopo la pandemia». È questo il titolo del saggio che raccoglie i dati, i risultati, i contesti della ricerca interdisciplinare promossa dall’Università Cattolica e presentata in un convegno presso l’Aula Negri da Oleggio dell’Ateneo.

Aperta da Antonella Sciarrone Alibrandi, prorettore vicario, che parla «di un progetto molto importante per l’Università che si inserisce in qualcosa di ancora più grande riguardante l’umano e lo sviluppo delle tecnologie», la Giornata di studi ha visto il successivo intervento di monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale della Cattolica e già responsabile dell’Ufficio comunicazioni della Cei e presidente della Commissione episcopale italiana per la Comunicazione e la Cultura.

È lui che osserva: «La rilevanza del contributo scientifico dell’indagine, con una griglia di 4 aree tematiche e 12 chiavi interpretative, offre moltissimi spunti di alto profilo. In questo cambiamento di epoca, tale focus mette in evidenza una serie di riflessioni e di dati che hanno profonde ricadute ecclesiali. Le questioni che vengono poste vanno riprese per capire cosa dicono al nostro presente. I parroci intervistati non usano i social, ma le email, sanno qualcosa dei new media, ma vi è un chiaro gap generazionale e l’opinione diffusa che tutto questo non incida sulla missione della Chiesa dimostra una miopia preoccupante».  

L’attuale direttore dell’Ufficio Nazionale Comunicazione della Cei Vincenzo Corrado richiama il supporto offerto, per la realizzazione del progetto iniziato a gennaio 2019 e proseguito fino all’aprile 2021.

La ricerca

«Tenere insieme in modo inedito, produttivo e generativo, le relazioni in presenza e in digitale, seppure con stili differenti, è il valore aggiunto che le parrocchie intervistate hanno manifestato», sottolinea Lucia Boccacin, ordinario di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso la Facoltà di Scienze della Formazione e curatrice del saggio.

«Una prima indagine quantitativa – spiega – ha interessato 420 parrocchie italiane collocate nel 68,1% dei casi nel Nord Italia, nel 15,2% nel Centro e nel 16,7% nel Sud e nelle isole; una seconda, ha preso in considerazione 144 realtà comprese tra le precedenti, per cogliere i cambiamenti in atto dovuti alla pandemia. Inoltre, un’ulteriore indagine qualitativa, tra settembre 2020 e aprile 2021, ha riguardato alcuni casi emblematici di interconnessione tra relazioni interpersonali e digitali volti a generare pratiche di comunità».

Il saggio che contiene la ricerca

I risultati raggiunti identificano tre tipi di comunità attivi nelle parrocchie, «comunità di attaccamento, comunità generative di capitale sociale e comunità di luogo». Le prime, pari al 40% del campione, si mostrano come comunità di tipo pragmatico, fondate sulla realizzazione di attività educative (il catechismo, l’oratorio, l’offerta di attività di supporto come il doposcuola che interessa il 95,8%), con un limitato utilizzo delle tecnologie digitali (35,2%), prevalentemente finalizzate a svolgere una funzione di tipo informativo (60,5%).

Il secondo gruppo riguarda il 30,6% dell’universo di riferimento e comprende parrocchie impegnate in molteplici azioni solidaristiche e ha ottenuto il valore più elevato rispetto all’indice di abilitazione al digitale e rispetto all’indice di comunità promosso dalle tecnologie.

Il terzo raggruppamento riguarda il 29,4% del campione e include parrocchie con forme stabili di socialità e attività ricreative, culturali e sportive rivolte a giovani, adolescenti e anziani.

Questo terzo gruppo mostra l’indice più alto di comunità promosso dalla tecnologia che diventa uno strumento privilegiato anche delle relazioni».

Da qui, le conclusioni di Boccacin. «Con vari gradi di differenza, emerge che la pandemia ha avvicinato, in alcuni casi forzosamente in altri consapevolmente, i dispositivi digitali alle parrocchie e ha incentivato il loro utilizzo anche nelle relazioni interpersonali e di comunità già esistenti, se pure ciò non significa che siano entrati allo stesso modo nella vita quotidiana di tutte le parrocchie considerate. Si delinea, così, la necessità di un maggior approfondimento nel rapporto tra azione pastorale e nuove tecnologie che è, per così dire, a geometria variabile. La pandemia ha avvicinato i devices digitali alle parrocchie e ha incentivato il loro utilizzo, ma rimangono ancora ampie zone di ombra».

Le altre comunicazioni

Prendono poi la parola altri docenti per le diverse aree tematiche – dell’educazione ai media e innovazione, psicologica, sociologica, organizzativa – interessate nella gestione dell’indagine.

Pier Cesare Rivoltella, direttore del Cremit, nota: «Nell’uso prevalgono gli old media (televisione, cinema) e non compaiono, se non in forma ridotta, i social; nella rappresentazione prevale la dimensione informativa piuttosto che quella comunicativa (68%); nell’appropriazione dei media digitali per la pastorale emergono cautele se non preoccupazione nei confronti dei fattori di rischio (46%). In compenso, solo il 10% dichiara di non usare WhatsApp e il 32% del campione, a un’analisi più approfondita, si dimostra multitasking rispetto alla possibilità di utilizzare i media digitali per costruire e mantenere relazioni. La pandemia ha sicuramente spostato (almeno di un 14%) le parrocchie da posizioni di basso consumo e di protezione a posizioni di uso consistente e di coltivazione dei nuovi mezzi di comunicazione, forzando i comportamenti, ma resta difficile pensare alla tecnologia in funzione della pastorale e della comunità».

Di fronte a un mediale che non è più separabile dall’umano «per la pastorale e la comunicazione ecclesiale si tratta, allora, di comprendere questo trend e di mettere in campo un obbligo di aggiornamento».

Le conclusioni di monsignor Bressan

«Come teologo pastoralista, ho a lungo studiato la parrocchia – evidenzia il vicario episcopale monsignor Luca Bressan -. La Chiesa europea vive un trauma organizzativo perché ci accorgiamo, dai numeri, che non saremo mai più come prima. Ormai anche la cultura ci dice che è cambiato e cambia il modo di sentirsi parte della Chiesa. La ricerca fotografa una parrocchia che appartiene a una rappresentazione della Chiesa di 20-25 anni fa, ma è preziosa e vi sono degli elementi che mi hanno interrogato. Per esempio, il Papa, che ha fatto il parroco di Italia durante la pandemia, ha funzionato benissimo sui social e questo è molto interessante. Anche la Caritas è diventata social in un attimo, ma le persone dovrebbero essere consapevoli che la Caritas ambrosiana funziona perché può contare su 780 Caritas parrocchiali. Quale è, allora, il confine della parrocchia?».

I presenti al convegno

Tre le sfide identificate da Bressan: «I preti percepiscono che nulla sarà come più prima, ma che il compito è, comunque, di stare accanto alla gente. Occorre aiutare tutti a capire che siamo cercatori, siamo nel momento della crisalide, e dobbiamo ben definire il parametro dell’identità».

Poi, la seconda: «Il problema vero che si accende è come sia possibile una fede in un corpo umano modificato dalla presenza del digitale» e, infine, la terza. legata al corpo della Chiesa. «La ricerca ci dice che, da un punto di vista teologico, i preti continuano a sentire la missione di radunare un popolo che, però, è attivato magari sui social non partecipando più concretamente alla vita della comunità. Leggo la ricerca come uno stimolo a vivere questa trasformazione, non come una chiusura, ma come una dinamica generativa».

Insomma, la strada da fare è ancora tanta anche se – lo dice Mario Morcellini, direttore dell’Alta Scuola di Comunicazione della “Sapienza” – «i giovani hanno svolto un ruolo trainante e le parrocchie hanno dato una chiara dimostrazione di capacità di resilienza nei momenti dell’emergenza tanto da evitare che, per esempio, le celebrazioni senza popolo diventassero il colpo finale alla loro realtà».

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