Presentato un documento con una riflessione pastorale sul coinvolgimento dei media: «L’intelligenza artificiale avrà un impatto sempre maggiore»
«La questione non è più se confrontarsi o meno con il mondo digitale, ma come farlo». Questo il presupposto del documento Verso una piena presenza. Riflessione pastorale sul coinvolgimento dei media, diffuso oggi dal Dicastero per la comunicazione della Santa Sede.
«Affrontare alcune delle principali questioni che riguardano il modo in cui i cristiani dovrebbero utilizzare i social media», l’obiettivo del testo, in cui si fa notare che «con l’avvento del Web 5.0 e altri progressi nelle comunicazioni, il ruolo dell’intelligenza artificiale nei prossimi anni avrà un impatto sempre maggiore sulla nostra esperienza della realtà. Stiamo assistendo allo sviluppo di macchine che lavorano e prendono decisioni per noi, che possono imparare e prevedere i nostri comportamenti; sensori sulla nostra pelle in grado di misurare le nostre emozioni; macchine che rispondono alle nostre domande e imparano dalle nostre risposte o che usano i registri dell’ironia e parlano con la voce e le espressioni di quanti non sono più con noi. In questa realtà in continua evoluzione, molte domande richiedono ancora una risposta».
«I notevoli cambiamenti che ha vissuto il mondo dalla comparsa di Internet hanno anche provocato nuove tensioni – l’altra osservazione del testo -. Alcuni sono nati in questa cultura e sono quindi “nativi digitali”, altri stanno ancora cercando di abituarsi come “immigrati digitali”. In ogni caso, la nostra cultura è ormai una cultura digitale. Per superare la vecchia dicotomia tra “digitale” e “faccia a faccia”, alcuni non parlano più di online e offline, ma solo di onlife, incorporando la vita umana e sociale nelle sue varie espressioni, siano esse in spazi digitali o fisici».
No allo strapotere degli “algoritmi”
«Per molti, specialmente nei Paesi in via di sviluppo, l’unico contatto con la comunicazione digitale avviene attraverso i social media – si legge nel documento -. Sebbene questa evoluzione si stia sviluppando più velocemente delle nostre capacità di comprenderla adeguatamente, molte persone ancora non hanno accesso non solo a cose essenziali come cibo, acqua, vestiti e assistenza sanitaria, ma anche alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione – l’analisi del testo -. Questo lascia un gran numero di persone ai margini della strada». Inoltre, il social media divide sta diventando sempre più acuto: «Le piattaforme che promettono di costruire comunità e connettere maggiormente le persone hanno invece reso più profonde varie forme di divisione. La crescente enfasi sulla distribuzione e sul commercio di conoscenze, dati e informazioni ha generato un paradosso: in una società in cui l’informazione svolge un ruolo così essenziale, è sempre più difficile verificare le fonti e l’accuratezza delle informazioni che circolano in digitale».
«Il sovraccarico di contenuti è risolto da algoritmi di intelligenza artificiale che decidono costantemente cosa mostrarci, sulla base di fattori che a malapena percepiamo o intuiamo – il grido d’allarme del documento -. Non solo le nostre scelte precedenti, i nostri like, le nostre reazioni o preferenze, ma anche le nostre assenze e distrazioni, le pause e i tempi di attenzione. L’ambiente digitale che ognuno vede – e perfino i risultati di una ricerca online – non è mai uguale a quello di un altro. Cercando informazioni nei browser, o ricevendole nel nostro feed su diverse piattaforme e applicazioni, di solito non siamo consapevoli dei filtri che condizionano i risultati. La conseguenza di questa personalizzazione sempre più sofisticata dei risultati è un’esposizione forzata a informazioni parziali, che corroborano le nostre idee, rafforzano le nostre convinzioni e ci conducono così a isolarci in un “effetto bolla”».
«Il social web non sostituisce l’incontro in carne e ossa»
«Il social web è complementare – ma non sostitutivo – di un incontro in carne e ossa che prende vita attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo e il respiro dell’altro – precisa il documento -. Se una famiglia usa la rete per essere più collegata, per poi incontrarsi a tavola e guardarsi negli occhi, allora è una risorsa. Se una comunità ecclesiale coordina la propria attività attraverso la rete, per poi celebrare l’Eucaristia insieme, allora è una risorsa», si legge nel testo a proposito della partecipazione alla messa online. «La Chiesa stessa è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui like, ma sulla verità, sull’amen, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri – si fa notare nel testo -. Prima di tutto, dobbiamo ricordare che tutto ciò che condividiamo nei nostri post, commenti e like, attraverso parole pronunciate o scritte, con filmati o immagini animate, deve essere in linea con lo stile che impariamo da Cristo».
In questa prospettiva, «il come diciamo qualcosa è importante esattamente come il che cosa diciamo. La creatività consiste nell’assicurarsi che il come corrisponda al che cosa. Per comunicare la verità, dobbiamo innanzitutto accertarci di trasmettere informazioni veritiere; non solo nel creare i contenuti, ma anche nel condividerli. Dobbiamo assicurarci di essere davvero una fonte attendibile. Per comunicare bontà, abbiamo bisogno di contenuti di qualità, di un messaggio orientato ad aiutare, non a danneggiare, a promuovere un’azione positiva, non a perdere tempo in discussioni inutili. Per comunicare la bellezza, dobbiamo accertarci che stiamo comunicando un messaggio nella sua interezza, il che richiede l’arte della contemplazione, arte che ci permette di vedere una realtà o un evento in relazione con molte altre realtà ed eventi».
«Comunicazione divisiva preoccupante quando proviene dalla leadership della Chiesa»
Nel contesto della “post-verità” e delle fake news, «è ormai comune rivolgersi agli influencer, individui che ottengono e mantengono un ampio seguito, acquisiscono maggiore visibilità e riescono a ispirare e motivare gli altri con le loro idee o esperienze», è quanto si fa notare nel documento. «Adottato dalla teoria dell’opinione pubblica per l’approccio del social media marketing, il successo di un social media influencer è legato alla sua capacità di distinguersi nella vastità della rete, attirando un gran numero di follower», si spiega nel testo, in cui si precisa che, di per sé, «diventare “virali” è un’azione neutra; non ha automaticamente un impatto positivo o negativo sulla vita degli altri». Le reti sociali, infatti, «sono capaci di favorire le relazioni e di promuovere il bene della società, ma possono anche condurre a un’ulteriore polarizzazione e divisione tra le persone e i gruppi», perché «l’ambiente digitale è una piazza, un luogo di incontro, dove si può accarezzare o ferire, avere una discussione proficua o un linciaggio morale».
«Tutti noi dovremmo prendere sul serio la nostra influenza – l’appello -. Non ci sono solo macroinfluencer con un grande pubblico, ma anche micro-influencer. Ogni cristiano è un microinfluencer. Ogni cristiano dovrebbe essere consapevole della propria potenziale influenza, a prescindere dal numero di persone che lo o la seguono. Al tempo stesso, deve essere consapevole che il valore del messaggio trasmesso dall’influencer cristiano non dipende dalle qualità del messaggero».
«La nostra responsabilità aumenta con l’aumento del numero dei follower – la raccomandazione del Dicastero -. Più è grande il numero dei follower più deve essere grande la nostra consapevolezza che non stiamo agendo a nome nostro. La responsabilità di servire la propria comunità, soprattutto per coloro che ricoprono ruoli di leadership pubblica, non può diventare secondaria rispetto alla promozione delle proprie opinioni personali dai pulpiti pubblici dei media digitali».
Di qui la necessità di «essere riflessivi, non reattivi», anche sui social media: «Dobbiamo essere tutti attenti a non cadere nelle trappole digitali nascoste in contenuti che sono intenzionalmente progettati per seminare conflitti tra gli utenti, provocando indignazione o reazioni emotive. Dobbiamo essere cauti nel postare e condividere contenuti che possono causare malintesi, esacerbare le divisioni, incitare al conflitto e approfondire i pregiudizi. Il problema di una comunicazione superficiale, e quindi divisiva, è particolarmente preoccupante quando proviene dalla leadership della Chiesa: vescovi, pastori e leader laici di spicco – si legge nel documento -. Questi non solo causano divisione nella comunità, ma autorizzano e legittimano anche altri a promuovere un tipo di comunicazione simile. Di fronte a questa tentazione, spesso la migliore linea d’azione è non reagire o reagire con il silenzio per non dare dignità a questa falsa dinamica».
«Non siamo presenti nei social media per vendere un prodotto – il monito del testo –: Non si tratta di fare pubblicità, ma di comunicare la vita, quella che ci è stata donata in Cristo. Per questo ogni cristiano deve stare attento a non fare proselitismo, ma a dare testimonianza».
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