Redazione

A quattro decenni dalla sua conclusione, che ne è del rinnovamento inaugurato e auspicato dal Vaticano II? È questo un interrogativo niente affatto accademico, tanto che il testamento spirituale di Giovanni Paolo II e il primo discorso programmatico rivolto dal nuovo pontefice Benedetto XVI ai cardinali elettori hanno sollecitato l’intera Chiesa cattolica a marciare nella direzione tracciata dal concilio.

Nel predisporsi ad abbozzare una risposta all’esigente quesito, è necessario procedere con una forte passione ecclesiale che sola è capace di sopportare un esame di coscienza onesto e rigoroso, ma insieme equilibrato e generoso. Anzitutto, nessuno può contestare che il “nuovo corso” conciliare relativamente al mistero della Chiesa e all’identità del cristiano possa contare oggi su un consenso pressoché unanime a livello di coscienza diffusa. Sotto questo profilo, il tempo del post-concilio è stato galantuomo e ha premiato tanto lo slancio coraggioso di Giovanni XXIII che sfidando gli immobilismi dell’apparato curiale ha lanciato la sfida di un concilio pastorale, quanto la sapiente e avveduta regia di Paolo VI, capace di obbligare i padri conciliari a raggiungere un accordo di qualità fra l’impulso riformatore della maggioranza conciliare e la circospetta esitazione della minoranza.

Infatti, se ci si limita considerare gli apporti più sostanziosi delle costituzioni conciliari, si devono riconoscere diverse acquisizioni basilari che costituiscono un punto di non ritorno sul fronte della coscienza ecclesiale. Anzitutto, si deve ricordare la riscoperta della partecipazione dei credenti alla liturgia eucaristica, fonte e culmine della vita cristiana, favorita dalla celebrazione dei riti nella madrelingua. Inoltre, la riaffermazione del primato della Parola di Dio attestata nella Scrittura, ha favorito la riscoperta del testo biblico come alimento quotidiano di ogni credente. La nuova consapevolezza della Chiesa come comunità ancor prima che come istituzione e la riscoperta della categoria biblica di popolo di Dio hanno consentito la valorizzazione dei ministeri, dei carismi e della comune dignità di tutti i credenti. Simultaneamente il recupero della natura missionaria della Chiesa ha favorito l’adozione di un atteggiamento di dialogo franco, costruttivo con la società, così da sostenere ogni iniziativa tesa a promuovere concordia, sviluppo e solidarietà in vista della promozione del bene pubblico. Ma questo elenco risulta inevitabilmente troppo riduttivo, perché lascia fuori una serie di frutti che il Vaticano II ha generato: basti pensare alla svolta nel campo dell’ecumenismo e del dialogo con le religioni, alla valorizzazione dei laici, al rilancio dell’attività missionaria e così via.

Eppure, è dato sostenere che fra il dire e il fare c’è il mare aperto, con le difficoltà, i ritardi e le inerzie a realizzare nella vita ecclesiale e nella testimonianza dei singoli lo spirito del concilio. La cosa, nondimeno, non deve stupire più di tanto, in quanto costituisce una puntuale conferma della regola più generale per cui nell’esperienza biografica dei singoli individui e degli stessi gruppi sociali si verifica uno scarto fra l’acquisizione teorica di un’idea e la sua assimilazione simbolica. Il passaggio dal sapére (“avere notizia”) al sápere (“divenire consapevole”) non avviene automaticamente; implica invece un laborioso processo di interiorizzazione, che interpella la libertà del soggetto. In altre parole, la lezione del Vaticano II è stata recepita sul piano riflesso, ma ancora non è stata assimilata in profondità, fino a entrare pervasivamente nelle strutture, nelle abitudini, nel linguaggio della Chiesa e dei singoli fedeli.

Certo, all’indomani del Vaticano II la Chiesa cattolica è entrata in una fase storica nuova, soprattutto in ragione del fatto che in Occidente si è dovuto prendere atto dell’uscita dall’epoca di cristianità, per riconoscere le dinamiche di autonomia, indifferenza, negazione del riferimento religioso che interessano la vita politica, il mercato, i costumi della maggioranza dei contemporanei. La sfida per i credenti è di procedere a una “nuova evangelizzazione”, sostenuti da una coerente testimonianza evangelica. In questo nuovo corso, per altro, si levano nella Chiesa alcune voci preoccupate che denunciano abusi e passi falsi, altre che lamentano retromarce e ritorni al passato. Non è il caso però di prestar credito a questi allarmismi, perché quella che sta vivendo oggi la nostra Chiesa è una crisi di crescita, quindi provvidenziale. Oltretutto, se ci si confronta con la storia bimillenaria della comunità cristiana, 40 anni sono un periodo tutto sommato breve per sostenere che l’onda lunga del concilio abbia concluso la sua spinta propulsiva. C’è ancora tanto tempo per trarre benefici dalla sua lezione. È questo il convincimento di papa Wojtila che nel2000 così concludeva il suo intervento nell’udienza concessa ai partecipanti al Convegno internazionale di studio sulla recezione e l’attualità del concilio Vaticano II:

Il «piccolo seme» che Giovanni XXIII depose «con animo e mano trepidante» nella Basilica di San Paolo fuori le Mura il 25 gennaio del 1959, annunciando l’intenzione di convocare il ventunesimo concilio ecumenico nella storia della Chiesa, è cresciuto dando vita a un albero che allarga ormai i suoi rami maestosi e possenti nella vigna del Signore. Molti frutti esso ha già dato in questi trentacinque anni di vita e molti ancora ne darà negli anni che verranno. Una nuova stagione si apre dinanzi ai nostri occhi; è il tempo dell’approfondimento degli insegnamenti conciliari, il tempo della raccolta di quanto i padri conciliari seminarono e la generazione di questi anni ha accudito e atteso.

Il concilio ecumenico Vaticano II è stato una vera profezia per la vita della Chiesa; continuerà ad esserlo per molti anni del terzo millennio appena iniziato. La Chiesa, ricca delle eteme verità che le sono state affidate, ancora parlerà al mondo, annunciando che Gesù Cristo è l’unico vero Salvatore del mondo: ieri, oggi e per sempre!

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