Redazione
Molti campioni vivono la fede nel privato, altri la manifestano anche nel contesto agonistico. L’acqua santa di Trapattoni, le magliette
dei brasiliani, i versetti buddhisti di Baggio e la scelta di vita di Roa
di Mauro Colombo
In attesa del fischio d’inizio un’invocazione al cielo: una preghiera a Dio o forse un appello al padre scomparso qualche mese prima. Dopo il primo dei suoi tre gol ha sollevato la casacca nerazzurra per mostrare alle telecamere, stampata sulla maglietta, la citazione di un versetto di San Paolo (Filippesi 4, 13): «Io tutto posso in colui che mi dà forza».
Il comportamento di Adriano in una partita di Champions League contro il Porto della scorsa stagione fece notizia, ma non sorprese, dato che il brasiliano dell’Inter non ha mai fatto mistero delle sue convinzioni religiose (appartiene alla Chiesa evangelica).
Molti calciatori vivono il rapporto con la religione nel loro privato. Altri lo manifestano esplicitamente all’interno o a margine del contesto agonistico. Certo, in un segno di croce frettoloso prima di entrare in campo è difficile individuare il confine tra devozione autentica e gesto benaugurante.
Propiziatorio – anche se frutto di fede genuina – fu il ricorso all’acqua santa da parte di Giovanni Trapattoni ai Mondiali nippo-coreani del 2002. Beppe Signori rivelò il suo trasporto per padre Pio. La fede ha animato l’impegno sociale di Gianni Rivera con Mondo X fin dagli anni Sessanta, di Damiano Tommasi con la Caritas in tempi più recenti e di molti altri giocatori.
E’ nota la religiosità dei calciatori sudamericani, evidenziata con grande passionalità. La nazionale brasiliana al gran completo (tecnici e dirigenti compresi) si inginocchiò in preghiera dopo la vittoria nella finale mondiale di Yokohama con la Germania: tutti indossavano magliette con scritte come 100% Jesus, I love Jesus…
Brasiliani sono gli “atleti di Cristo”, alcuni dei quali noti anche in Italia come Amarildo (che regalava la Bibbia al suo avversario diretto), Amoroso (sua la maglia con la dicitura «Grazie Dio») o il portiere Taffarel. Brasiliano è anche Kakà, che chiude il messaggio registrato sulla segreteria telefonica di casa con un «Che Dio vi benedica».
Chamot, che fece fece dono delle Scritture a tutti i suoi compagni del Milan, era invece argentino come Maradona, che si richiamò all’elemento soprannaturale per giustificare un celebre gol irregolare segnato all’Inghilterra durante i Mondiali del Messico nel 1986: «Sarà stata la mano di Dio».
La folta presenza di stranieri ha reso il calcio in Italia, oltre che “globale”, anche interreligioso. Il turco Hakan Sukur (ex Torino, Inter e Parma) pregava rivolto alla Mecca nella sua camera in ritiro. Fervente musulmano, in nazionale Sukur ha litigato con alcuni compagni di squadra dagli stili di vita più “laici”.
L’ex rossonero George Weah, invece, era solito raccogliersi a mani giunte e a capo chino prima di ogni partita. L’attaccante liberiano è passato dal cristianesimo all’Islam, per poi tornare al suo credo originale.
Roberto Baggio ha sempre attribuito alla serenità derivante dal buddhismo la capacità di riaversi dai non pochi eventi sfortunati della sua carriera. Aderente alla Soka Gakkai, il “Codino” ne portava i colori e alcuni versetti sulla fascia di capitano.
Ma per alcuni calciatori la fede ha anche rappresentato una scelta di vita. Taribo West, il nigeriano con le treccine che ha militato nell’Inter e nel Milan, ora fa il predicatore. Carlos Roa, portiere argentino del Maiorca, membro della Chiesa degli Avventisti del Settimo giorno, ha abbandonato l’attività agonistica per dedicarsi a tempo pieno alla religione.