“Per forza o per-dono? La complessa via della riconciliazione”: con questo titolo si è svolto l’annuale convegno, aperto dall’Arcivescovo. Una sorta di giro del mondo virtuale tra buone pratiche di pace
di Annamaria
BRACCINI
«La pace è il dono che ci facciamo gli uni con gli altri». Queste parole di Elie Wiesel. premio Nobel per la Pace, rimangono, insieme a tante altre di uomini e donne di buona volontà, scolpite nel video che apre il convegno di Mondialità 2022, “Per forza o per-dono?. La complessa via della riconciliazione”, promosso da Caritas ambrosiana, dal “Festival della Missione” e da “Terra Santa”, nell’anno in cui, a Milano dal 29 settembre al 2 ottobre prossimi si svolgerà il Festival dal titolo “Vivere per dono”.
Il saluto dell’Arcivescovo
Ad aprire l’assise è l’Arcivescovo che esprime gratitudine e incoraggiamento «per reagire ad alcune malattie e tentazioni di oggi».
Anzitutto, «la sindrome dell’anacronismo, perché parole come pace e riconciliazione pare che siano termini di altri tempi e generazioni e perché sembra che il contesto cittadino e quello planetario non siano più sensibili a queste stesse parole, tanto che la Giornata della pace, con cui iniziamo l’anno, non entusiasma e tiene vive delle bandiere dietro le quali non sfila nessun popolo contento di costruire il futuro».
Poi, «la sindrome del seme buttato sulla strada», secondo la logica della parabola evangelica. «Una sindrome dello sperpero, laddove non c’è un terreno propizio perché il seme porti frutto».
Che fare, allora? L’«atteggiamento raccomandato dal vescovo Mario» è, insieme, semplice e impegnativo per tutti. «Abbiamo la missione di essere profeti, di avere una parola da dire anche se, forse, non sarà popolare, non riceverà applausi, potrà sembrare quella di chi grida nel deserto. Ma è un compito che la Chiesa deve sempre esercitare e che gli uomini e le donne di buona volontà hanno la responsabilità di continuare. Abbiamo una profezia da presentare a questo tempo e a questa epoca della storia. Noi ci ostiniamo a considerarci fratelli tutti, non popoli che devono difendersi, imperi che devono espandersi, mercanti che devono trovare mercati. Questa è la profezia necessaria che promette futuro all’umanità».
«Una profezia che cerca le sue radici, le motivazioni, la forza a cui attingere per costruire la storia come storia di fraternità».
Un tema provocatorio, quello della fraternità, in quanto – sottolinea l’Arcivescovo – «alcuni dicono che la storia dell’umanità è iniziata con un fratricidio e che Caino e Abele sono dei prototipi. Ma io contesto tale convinzione perché, all’inizio della storia, c’è la creazione, il dono di Dio che ci ha reso partecipi della sua vita, è questo il principio della fraternità. La profezia è la nostra vocazione: siamo vivi per essere fratelli e sorelle».
Si prosegue con testimonianze video e con gli interventi in presenza presso la sede di Caritas ambrosiana
Monsignor Carlassare, Sud Sudan: «Perdono chi mi ha ferito»
A portare la sua esperienza è monsignor Christian Carlassare, vescovo di Rumbek in Sud Sudan ferito nell’aprile scorso, a pochi giorni dalla sua nomina. «Il perdono – dice – è qualcosa che raramente viene offerto nelle culture di queste zone e, quindi, è solo attraverso la fede che si può dare il perdono gratuitamente, non solo perché qualcuno lo merita, ma perché noi stessi riceviamo una libertà interiore che ci permette di andare avanti. Le mie ferite alle gambe sono oggi un segno di condivisione delle sofferenze della mia gente. Proprio perché sono stato vittima, le persone mi vedono come qualcuno che può indicare delle vie, un percorso possibile di riconciliazione da compiere insieme con speranza Sento una grande riconoscenza per la comunità di Rumbek perché mi ha aperto le porte non come a un privilegiato».
L’intervento del patriarca di Gerusalemme, monsignor Pizzaballa
«Uno dei temi di cui non si vuole parlare in Terra santa è proprio il perdono», spiega, da parte sua, Pierbattista Pizzaballa, “storico” Custode di Terra Santa e, dal 2020 alla guida del Patriarcato latino di Gerusalemme.
«Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono», disse nel suo Messaggio per la Pace 2002, san Giovanni Paolo II che, in preparazione al giubileo del 2000, aveva voluto fare un percorso di purificazione della memoria. Le ferite del passato, se non curate, continueranno a produrre dolore per anni se non per secoli, rendendo impossibile la riconciliazione. In Terra santa, ad esempio, sono ben pochi a sapere il cammino fatto dai cristiani in questo senso: per molti siamo sempre quelli delle Crociate», prosegue Sua beatitudine. «Occorre un lavoro culturale e attivare dinamiche di vita. In Terra santa siamo in una situazione di conflitto logorante che rende difficile la comprensione dell’altro perché ciascuno vede solo il proprio dolore, però ci sono molte persone che non hanno paura di dialogare, anche se se ne parla sempre meno. Il territorio ha gli anticorpi come l’associazione che riunisce i parenti israeliani e palestinesi delle vittime degli attentati, le donne per la pace, che promuovono una narrativa non solo maschile del conflitto, le scuole Cristiane, quelle chiamate “mano nella mano” o i gruppi nei quali si leggono insieme i testi sacri di riferimento. Non si tratta di dimenticare, ma sarà arduo costruire il futuro se ci si pone solo in un atteggiamento di vittime».
Come ripensare, dunque, la storia e la memoria? «Facendo giustizia».
Il ruolo dei cristiani
«A livello sociale e politico, che deve tenere in considerazione le ferite collettive e dei tempi di risposta delle diverse comunità, non è facile trasporre ciò che funziona a livello personale. Il perdono, in un contesto pubblico e aperto, ha tempi più lunghi e complessi, ma è necessario: il perdono non si può imporre né pretendere nemmeno da parte delle religioni, ma è sempre un dono ricevuto e consegnato, opzione del cuore con una visione condivisa e, in questo, le religioni hanno un ruolo fondamentale. Ciò chiede di incrementare il dialogo interreligioso. Se i processi di pace non partono dalla convinzione, non funzionano come hanno dimostrato tanti accordi tra israeliani e palestinesi tipo quelli di Oslo, sempre meno credibili. Oggi, con le ideologie che hanno perso la loro forza propulsiva, sono fondamentali le visioni religiose, come si rende evidente sia in Hamas, sia nel governo israeliano ora al potere. Una situazione che ha complicato molto le cose, ma proprio per questo il dialogo interreligioso non è un optional, un gioco da intellettuale, ma una necessità che, in Terra santa si realizza in privato, perché in pubblico non è ancora possibile».
Ma cosa significa davvero stare dalla parte di Gesù e non di Barabba?, si chiede ancora Il Patriarca «Di fronte alla situazione in Medio Oriente il cristiano deve darsi da fare per la giustizia come tutti gli altri, ma con un atteggiamento di libertà in più perché giustizia e dignità già gli appartengono. Secondo Barabba questa è una strategia senza futuro, mentre tante testimonianza dei “piccoli” del mondo dicono che molto è distrutto, ma non tutto è perduto. Il cristiano non è mai passivo o rassegnato e da questo si vede il messaggio che porta: si tratta di esserci, di stare nel mondo ferito, senza la pretesa di insegnare a perdonare, ma sperimentando il perdono che è un gesto autenticamente rivoluzionario».
Poi, in una sorta di giro del mondo virtuale – come lo definisce la moderatrice dell’incontro, Lucia Capuzzi giornalista di “Avvenire” -, la Tavola rotonda in cui si confrontano alcuni testimoni.
La vedova Calabresi: «prego per gli assassini di mio marito»
Inizia Gemma Capra che il 17 maggio 1972, mamma già di 2 figli piccoli e in attesa del terzo, divenne la vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso in un agguato.
«Fu un giorno di dolore atroce – ricorda – ma a un certo punto sentii nascere in me un’assurda luce, una forza, l’idea che ce l’avrei fatta. Infatti, dissi al mìo parroco che mi aveva comunicato la morte di mio marito, “recitiamo una preghiera per la famiglia dell’assassino”. Era chiaro che qualcuno mi stava indicando la strada: non ero sola, ho sentito la presenza di Dio e quella mattina ho ricevuto il dono della fede che non toglie la sofferenza, ma la riempie di significato e offre di nuovo la fiducia nella vita. Da quel momento una fede un po’ di abitudine per me è diventata una scelta. Non si può dare il perdono con l’intelligenza o con le parole, ma solo con l’amore. Oggi il prego per gli assassini di mio marito perché abbiamo la pace del cuore e lì porto come me quando mi accosto all’Eucaristia. Il perdono ti fa volare altro, fa vivere in pace con Dio e con l’umanità».
L’esempio della Colombia
Adolfo Ceretti, criminologo dell’Università Bicocca parla, invece, della Colombia dove la guerra civile tra il 1958 e il 2012 ha fatto 8 milioni di vittime, 47.000 desaparecidos e più di 7.700.000 sfollati.
«Le prime cellule guerrigliere, le Farc, nascono negli anni ‘50, in principio come gruppi armati che combattevano per la giustizia sociale, per l’estensione del diritto allo studio e dell’assistenza sanitaria pubblica. Il problema è che consideravano legittima la violenza. Solo nel 2011 il presidente Santos (anche lui Premio Nobel per la Pace) iniziò un dialogo serio per giungere a una riconciliazione, arrivata nel 2015 con un accordo tra Stato e le formazioni che abbandonarono la lotta armata»
Oggi, in attuazione di quegli accordi, è subentrata una legge che ha istituito la Commissione per la Verità (presieduta dal padre gesuita Francisco de Roux) e la Giurisdizione per la Pace (per cui lo stesso Ceretti forma i mediatori) che riceve le denunce e che, quindi, mette al centro le vittime, elaborandole insieme ai colpevoli cammini di pace.
«È qui che entra in gioco il modello della giustizia riparativa – osserva il criminologo -, in cui le vittime, che possono decidere forme di riparazione, e i responsabili si incontrano. Un rapporto io-tu, assistito da un mediatore formato ad hoc, per favorire il percorso, per rifondare una capacità di riformarsi, delineando un agire responsabile per il futuro, sia a livello personale che collettivo».
Operatori di pace in un mondo in guerra
Infine, in collegamento da Erbil nel Kurdistan iracheno, parla Davide Bernocchi, rappresentante del Catholic Relief Services, che narra delle tante diversità che sono «l’anima dell’Iraq». Un Paese, fatto dei tanti fili incrociati di quel tappeto creato da Dio di cui ha parlato il Papa nel suo storico viaggio in Iraq del marzo 2021.
«Le diversità e le divisioni sono state esacerbate dai conflitti dagli anni ‘90 e, specie dal 2014, dall’affermarsi dell’Isis che, in pochi giorni, si impossessò di più di 1/3 del Paese. Poi, dopo il potere dell’Isis cessato nel 2017, si è iniziato a parlare di riconciliazione. Caritas, che si occupa di educazione e di lavoro, crea ponti con una testimonianza cristianamente autentica. Per questo i cristiani sono riconosciuti, qui, come operatori di pace».