Al termine del viaggio apostolico di Francesco, emerge una proposta che appare dirompente in un contesto in cui la religione è stata utilizzata come strumento di conflitto
di Vincenzo
BUONOMO
Rettore della Pontificia Università Lateranense - Agenzia Sir
In un mosaico di culture, visioni religiose, modi di vivere e possibilità di esistenza, la proposta di una visione unitaria fondata su un elemento essenziale: la fede piuttosto che la religione. Così potremmo sintetizzare il viaggio apostolico compiuto da papa Francesco in Iraq.
La proposta appare dirompente in un contesto in cui la religione è stata utilizzata come strumento di conflitto, come base per l’ eliminazione anche fisica di persone e comunità appartenenti a credi diversi, per distruggere strutture, opere educative e sanitarie, capolavori d’arte e finanche cancellare città e villaggi.
Dirompente sul piano religioso o del confronto e della visione delle religioni, a cui non basta più proporre un semplice sentimento di coesistenza con la possibilità di dialogo, ma che adesso sono chiamate a dare prova di essere espressione effettiva di un modo di intendere la fede con gli elementi, i doveri, i comportamenti da essa discendenti, in un mondo che non apprezza la rilevanza di un credo o la sua possibile incidenza politica o sociale, ma domanda esempio e testimonianza.
Dirompente sul piano politico in un contesto territoriale nel quale si cerca e si combatte una visione, quella dell’occidente, spesso ammantata da retorici e ipotetici desideri di pace, che, puntando a destabilizzare regimi apertamente anti democratici e capaci solo di soffocare ogni diritto umano, ha frammentato piuttosto realtà che per secoli avevano ritenuto di poter convivere e coesistere nonostante le differenze e conflitti ritornanti. La stabilità di quei territori oggi auspicata, ma rincorsa solo attraverso le stesse armi che l’hanno provocata, non costituisce più un obiettivo raggiungibile. E questo Francesco l’ha messo chiaramente in evidenza fin dal suo arrivo nel Paese quando, di fronte ai responsabili delle istituzioni irachene e ai rappresentanti diplomatici dei diversi Stati, ha tuonato contro l’inutilità del ricorso alla forza armata, la vergogna del commercio delle armi che supera ormai abbondantemente qualunque altra attività di ordine economico-finanziario nel mondo, la costruzione di muri o di qualunque altro elemento che semplicemente sia basato sulla categoria del nemico.
Non si tratta di parole, né di circostanziate allocuzioni di fronte a un cerimoniale previsto e considerato foro privilegiato per lanciare proclami. È piuttosto la volontà di sottolineare, ancora una volta, che non esiste una missione sacra di civiltà, ma esistono civiltà capaci di vivere e far vivere anche la sacralità di momenti e fatti, di far convivere comunità e persone,di riuscire a portare avanti obiettivi unitari, nonostante le diversità.
Ancora più dirompente è stato l’approccio rivolto ai diversi gruppi e alle molte ispirazioni: nessuno è stato dimenticato in un contesto fatto di sciiti e sunniti, cristiani dei diversi riti e confessioni, curdi e yaziti, mandei e assiri. Francesco ha mostrato di essere certo che ognuna delle tessere del mosaico iracheno avrebbe – come di fatto ha – percepito secondo la propria visione quell’elemento comune a tutti, di grande spessore politico come è la pace, che ha però il sapore della fraternità.
Abituati a leggere un contesto fatto solo di desideri di pace, di buona volontà, magari anche confortato e sorretto dal mesto ricordo di tante vite perdute, non possiamo dimenticare come tutto questo il Papa lo abbia tradotto nel desiderio di andare avanti, di proseguire oltre, nonostante i conflitti.
Conflitti che certamente non si concluderanno con questo viaggio, come pure le ferite che hanno provocato non saranno sanate da questa visita che forse già in queste ore ha perso l’appeal dei media e dei grandi commentatori che in poche ore si sono affannati a dire tutto ed ogni cosa possibile della presenza in Iraq del capo di una religione o per qualcun altro di un uomo di pace.
Conflitti che però avranno un punto di riferimento e forse un elemento di confronto che impedirà di leggerli come semplice manifestazione di volontà diverse, come atti di supremazia, o ancora come strumenti per garantire la democrazia o magari il pluralismo, anche religioso.
Come pure non saranno possibili ordinarie analisi che confondono un cessate il fuoco traballante con la fine del conflitto: altra cosa, ci dice Francesco, è la pace. In un’area geopolitica crocevia di incontro e di scontri, la presenza del Vescovo di Roma ha sintetizzato la realtà di quei luoghi quando, ricordando la comune radice nella terra di Ur, lo ha fatto alla presenza dei rappresentanti delle diversità religiose che Ur ha generato. Diversità spesso in conflitto, in antitesi tante volte, ripetutamente prese da una volontà di potenza volta ad annullare l’altro o a renderlo servo. Eppure, la radice nel patto di Abramo è la stessa. È lui il nostro padre nella fede capace di lasciare ogni cosa «per andare verso una terra che non conosceva» (Francesco, Preghiera dei figli di Abramo, 6 marzo 2021).
Lo ha fatto incontrando esponenti religiosi disposti a una personale volontà di coesione, chiedendo loro di contagiare con lo stesso spirito quanti hanno vicini o che da loro dipendono. È la grande sfida, non del semplice dialogo e neanche di una ipotetica fraternità, ma piuttosto la sfida di ritrovare la radice comune, riconoscersi in essa e di là ripartire. Certo diversi, ma allo stesso tempo pronti nel dare dimostrazione che la fede è l’elemento che unisce.
Lo ha fatto disegnando ai cristiani, da sempre presenti in quei territori, non l’attesa di tempi migliori, e neanche incitandoli a confidare solo sulla palma del martirio, pur meritata dalle circostanze e dalla violenza ruggente che in nome di un Dio ha eliminato persone, luoghi di culto, speranza di vita. Ai cristiani ha affidato il compito di ricostruire le istituzioni chiedendo loro di “sporcarsi le mani”; li ha invitati ad essere artigiani di pace e cioè protagonisti di una rinascita per un Paese dalle grandi risorse ma che mostra solo potenzialità e non ancora una concreta possibilità di ripartire.
Lo ha fatto ben sapendo che i cristiani sono una minoranza e tra loro stessi non mancano divisioni che, se non ritornano a rispecchiare diversità di riti, storie o culture diverse, rappresentano solo contrapposizione. Ed ecco che affida loro il compito di operare dal di dentro delle strutture esistenti che, pur fatiscenti, spesso fragili o magari tutte da costruire, sono l’unico luogo in cui il cristiano può veramente essere martire.
Leggere il «pellegrinaggio presso una Chiesa viva» solo come un incontro interreligioso o tra religioni diverse o ancora tra uomini di religione, vuol dire sorvolare su ciò che di politicamente valido ed effettivo comporta: la fede e non l’appartenenza religiosa è protagonista di ogni azione e dei possibili cambiamenti.
Guardando alla vita interna di un Paese in cui l’elemento minoritario costituisce lo struttura primaria della società civile e religiosa, e ancora allargando lo sguardo alla vita internazionale, quella dei rapporti tra i diversi Stati, con sano realismo Papa Francesco ha detto ancora una volta che il riferimento alla fede, alla fede di ciascuno e di tutti, è l’elemento che unisce e crea la coesione necessaria in grado di dare un futuro ad un Paese o al mondo. La religione identificata unicamente nelle strutture e nella ripetizione di formule e modelli contrapposti, non potrà essere la forza che salva, né l’elemento che va salvato.
È come Abramo che obbedisce con fede e per fede prosegue, anche di fronte al sacrificio che Dio gli chiede: questa la sfida che in terra irachena Francesco ha lanciato alle religioni, alla politica interna, estera e internazionale. Un nuovo patto da Ur, concreto, perché non si debba più dire: «Abbiamo sbarrato le porte alla pace» (Francesco, Preghiera per le vittime a Mosul, 7 marzo 2021).