Nel Discorso alla Città l’Arcivescovo ricorda la dimensione della cura alla persona malata. Raccontiamo l’esperienza dell’hospice di Airuno, che con le cure palliative assicura dignità e qualità alla vita terminale

Nespolo Airuno
Un ospite del Nespolo

di Barbara Garavaglia

Si trova nel cuore di un piccolo paese della Brianza, in uno storico edificio avuto in comodato d’uso dalla diocesi di Milano. È attivo da vent’anni, con i suoi dodici posti-letto. L’hospice Il Nespolo di Airuno, in provincia di Lecco, dell’associazione “Fabio Sassi”, è una struttura che accoglie malati che recano il fardello di una diagnosi infausta e che debbono attraversare un momento cruciale della propria esistenza, assieme ai propri familiari.

Una casa tra le case

L’esperienza de Il Nespolo è nata a seguito della consapevolezza del fatto che non tutti i malati potessero essere curati a casa. Sul territorio era già attivo un servizio di cure palliative domiciliari, ma era evidente che ciò non fosse sufficiente. Da lì l’idea di far nascere un hospice. La scelta cadde su un centro cittadino, ben servito dai mezzi pubblici e facilmente raggiungibile in auto. Il motivo fu quello di inserirsi in un tessuto non solamente urbanistico, ma umano. L’hospice doveva essere una casa tra le case, accogliente, discreta. Ci vollero anni, e la tenacia dei primi soci dell’associazione, per giungere al taglio del nastro e all’apertura della struttura, che non ha mai chiuso, nemmeno nei momenti più duri della pandemia di Covid, permettendo ai parenti di entrare e stare accanto ai propri cari con le adeguate precauzioni.

La struttura dell’hospice nell’abitato di Airuno

Perché, se la malattia non è guaribile, il paziente va curato, accudito, affiancato e sostenuto, la sofferenza fisica non è inevitabile. L’equipe multidisciplinare de Il Nespolo stende sulla persona quel mantello, il pallium appunto, che migliora la qualità dei giorni del paziente e della sua famiglia.

Il quaderno dei pensieri

All’hospice di Airuno c’è un grosso quaderno, nel quale i parenti e, a volte, gli stessi ospiti, lasciano un pensiero, una testimonianza. Da quegli scritti emerge quale sia la filosofia della struttura e il percorso che lì si compie. Il personale medico e infermieristico, i volontari, il cappellano, stanno al fianco della persona ammalata. Ci sono le terapie, certamente, ma anche piccole attenzioni affinché l’ospite si senta “a casa”. Una pietanza desiderata, un massaggio, se possibile un’uscita nel piccolo giardino della struttura, una lettura, il colloquio con uno psicologo, con il sacerdote, con il volontario, le scelte condivise, la possibilità di salutare i propri cari serenamente… Ogni azione è tesa a dare dignità e qualità, a dare vita, ai giorni che restano. Prendersi cura della persona nella sua interezza, anche con la propria dimensione spirituale, con le domande che vede emergere.

Una delle camere

«La prima norma riferita alle cure palliative è la legge 39 del 26 febbraio 1999 – spiega Daniele Lorenzet, presidente della “Fabio Sassi” e volontario in hospice -, che ha sancito il diritto del cittadino di accedere alle cure palliative e che ha previsto un programma nazionale per la creazione di strutture residenziali di cure palliative in tutte le regioni. Ancora oggi, però, molti non sanno cosa sia un hospice: si pensa a un ospizio, invece è un luogo di accoglienza e ricovero per malati a prognosi infausta. un posto dove non curiamo la malattia, ma curiamo la persona fino all’ultimo secondo, perché la cosa importante è dare dignità alla vita».

Cura che si estende idealmente a tutto il nucleo familiare, cercando di arginare e accompagnare paure e solitudini: «In hospice il paziente non è mai lasciato solo – specifica Lorenzet -, facciamo in modo che a disposizione ci sia sempre qualcuno quando non ci sono i parenti e questo lo riusciamo a fare grazie al prezioso aiuto dei volontari. È anche il posto dove ci prendiamo cura dei parenti, li aiutiamo in questi momenti difficili e nel periodo di elaborazione del lutto».

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